Diciamolo subito: i social sono parte attiva del nostro modo di comunicare. E’ emblematico quello che diceva Umberto Eco con tono sferzante: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Si trattava evidentemente di una boutade provocatoria e negli anni, in realtà, abbiamo imparato ad usare i social per il contributo positivo che possono dare, anche in termini di partecipazione collettiva.  Resta il fatto che essi sono uno strumento con forte capacità manipolatoria se vengono usati da persone incapaci di analizzarne il messaggio e filtrarne la potenzialità seduttiva. Nella stessa occasione Eco invitava i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno».

La diffusione capillare dei social è un fenomeno che va studiato anche per la loro valenza di strumento di attrazione commerciale, spesso utilizzato persino dalle imprese.

L’impatto economico che possono determinare, inoltre, viene rafforzato dalla dimensione sociologica e culturale del fenomeno. E’ vero che l’output di questi strumenti si sostanziava in un ‘divertissement’, come potevano essere i balletti degli adolescenti su TikTok ma in pochi anni è diventato un potente attrattore commerciale diretto proprio a quella fascia d’età già abituata all’uso del mezzo. Ora i tiktokers  sono diventati influencer (non solo ballerini) e chi utilizza il social diventa spesso un consumatore che segue i consigli veicolati dai video. Complice l’età ed i messaggi seduttivi, si può parlare sicuramente di consumatori poco accorti ma che generano un volume di affari non indifferente.

 

Si parla, peraltro, di un consumo che introduce ed indirizza anche verso usi e costumi che, in breve, diventano virali nella popolazione target

 

Il caso del food e la deriva di TikTok

In questo articolo ci limitiamo ad osservare e prendere ad esempio ciò che riguarda l’asset del Food, e quali implicazioni può avere un social così invasivo sul nostro modo di consumare e sulle abitudini che si determinano.

Da un paio d’anni è uno spopolare di mini-video dove il cibo è il protagonista assoluto. Se si osserva bene, tuttavia, l’attenzione è posta nello specifico al segmento dello street food.

Sicuramente un ruolo determinante l’ha svolto il Covid, che ha fortemente lanciato il cibo d’asporto, ma il successo lo si deve anche all’attrazione della generazione ‘hightlights’ verso tutto ciò che è fast. Di fatto questi video spopolano sui social e, partiti come un gioco, sono diventati un vero e proprio strumento di marketing, per certi versi di ‘guerrilla marketing’.

Si trovano migliaia di video in cui non solo il food viene proposto in mille salse, ma vi è anche il ‘trionfo’ di una nuova tendenza: il ‘food-porn’.  Il nome, che potrebbe trarre in inganno, si riferisce ad un eccesso di cibo tipico della esuberanza adolescenziale. Panini di dimensioni abnormi conditi con mille spezie e farciti con altrettanti prodotti. Senza considerare che tutto questo si tradurrà in una mole di lavoro notevole per i nutrizionisti (che avranno orde di ragazzi che faranno la fila per de-congestionarsi dagli abbuffi) il quadro delinea un comportamento che va ad impattare decisamente sulla educazione alimentare, sulle abitudini e sui consumi.

Se prendiamo ad esempio la città di Napoli, patria dello street food di tradizione, vediamo come essa sia diventata ora patria indiscussa anche dei prodotti veicolati dai video sul cibo. Questo trend ha già una sua concretizzazione reale poiché il centro storico di Napoli, un tempo adeguatamente soppesato tra librerie e gastronomie tradizionali, ora è un pullulare estremo di punti vendita dedicati (anche) al cibo ‘pubblicizzato’ su TikTok.

Dove era pervasiva in ogni angolo la presenza di punti gastronomici con prodotti regionali (pizza a portafoglio, cuoppo di fritti, babà, sfogliatelle ed altri prodotti di tradizione), vedrete spuntare file chilometriche di persone (soprattutto giovanissimi) che, dietro consiglio di TikTok, si affannano ad accaparrarsi un panino con un ingrediente tipicamente “italiano”, il formaggio Cheddar.

Anni di sensibilizzazione culturale, pensiamo allo slow-food, buttati a mare. In una delle città simbolo dell’ottimo cibo italiano, a seguito della diffusione virale di TikTok vi è un pullulare di locali che propongono panini fast food che seguono la moda del momento.

I gestori di questi locali sono coscienti dell’involuzione del gusto ma la logica commerciale prevale ed essi seguono una tendenza che potrebbe essere pervasiva e duratura come fugace e limitata. In questo momento il Cheddar, o il finto Cheddar di provenienza dubbia, e domani un altro ingrediente imposto dai social.

Le nuove generazioni hightlights ‘pensano’ che quello sia il cibo più desiderabile. I video sono veloci, accattivanti, capaci di sedurre una generazione che rifugge l’approfondimento e fa un uso ‘snack’ dell’informazione.

La difesa del Made in Italy

La difesa del ‘Made in Italy’, in questa circostanza, sembra essere una battaglia non solo ‘commerciale’ ma anche culturale poiché si tratta di ripristinare una educazione alimentare basata sulla infinita offerta di qualità del cibo italiano.

Un caso diverso ed emblematico della capacità seduttiva del mezzo ma indirizzata fortunatamente ad un prodotto di qualità si verifica anche a Roma ed in altre località nazionali ed internazionali, dove eserciti di fruitori di TikTok assalgono alcuni punti vendita che vendono un particolare cibo da strada molto pubblicizzato sul social. E’ una sorta di franchising assai popolare che è diventato tale proprio grazie ai mini-video veicolati in rete. Il risultato è che vi è proprio un turismo da TikTok.  Magari i musei non vengono visitati e la norcineria storica che vende proprio quel particolare cibo da asporto da cinquanta anni è inspiegabilmente vuota, ma il franchising pubblicizzato su TikTok non sa come gestire la fila di clienti.

E qui si apre una determinate sociologica.  Per la generazione hightlights tutto è frame, immediato, destinato ad un consumo che si esaurisce in breve tempo senza lasciare traccia.

Pochi secondi di attenzione e immagini ripetute all’infinito: l’highlight

Anche nel campo dell’intrattenimento si notano le conseguenze. Fino ad ora si era abituati assistere alla partita di pallone, ad esempio, per 90 minuti vissuti intensamente.  Ma per i social 90 minuti sono troppi e la tendenza è quella di concentrarsi su una azione che duri pochi secondi, per ripeterla all’infinito.

E’ una propensione che colpisce anche il cinema. Le nuove generazioni non vanno più nelle sale né si abbonano alle piattaforme domestiche. Estraggono dai social 30 secondi di una scena, magari accattivante ma insufficiente rispetto al significato ed al valore del film, e la ripetono all’infinito.

Quel frame, quell’hightlight, diventa il centro di tutto.

Questa tendenza potrebbe essere un fenomeno passeggero, un trend che si esaurisce come il battito di ali di una farfalla. Oppure potrebbe essere il sintomo di una trasformazione destinata a diffondersi nelle nuove generazioni, orfane di punti di riferimento culturali.

Per intanto se ci capita di imbatterci in un qualche panino al Cheddar, soprattutto se è finto Cheddar, applichiamo una sana e nostrana resilienza. Chiediamo al ristoratore di farcirlo con qualche formaggio italiano. Che è decisamente migliore. E assicuriamoci che la farina, fatta per il pane, sia di grano. Non di insetti. Mi raccomando!