La tradizione e la storia alimentare sono uno straordinario veicolo di conoscenza di un territorio e di un popolo. Quello che si mangia, dove, come e con chi lo si mangia racconta tantissimo della società, dell’economia, della politica di qualunque comunità. Le differenze tra la cucina nazionale francese, sviluppatasi attorno alla Corte di Versailles e ai cuochi di casata reinventatosi ristoratori dopo la rivoluzione (con il risultato che si trovano le stesse pietanze dalla Bretagna alla Costa Azzurra) e la cucina famigliare e diversissima del nostro Paese, dove l’insularità è stato un valore difeso con le unghie, sono un saggio di storia politica. Se ne è occupata molto la storia sociale e l’antropologia, guardando alla microstoria della cultura materiale, meno la storia economica e d’impresa.

 

La ristorazione italiana è, fino a poco fa, stata microimpresa per eccellenza, se possibile familiare. Ingenua nel suo fare del “mestiere” artigiano di fare da mangiare impresa

 

Perché la ristorazione italiana è, fino a poco fa, stata microimpresa per eccellenza, se possibile familiare. Ingenua nel suo fare del “mestiere” artigiano di fare da mangiare impresa.

Forse qualche storico o sociologo un giorno capirà quando e perché l’ingenuità del mestiere di fare da mangiare è diventata moda e un po’ ossessione, oltre che punto di riferimento per chiunque voglia cambiare la narrazione del mestiere artigiano.

Qui ci interessa però un altro aspetto, che non è del tutto disgiunto dal cambio di immagine di cui sopra, ma che racconta la profonda trasformazione produttiva del settore nell’epoca del 4.0. Le cucine dei ristoranti, che per decenni sono stati una versione grande di quella che ognuno di noi ha nella propria casa, oggi sono laboratori con dotazioni tecnologiche di tutto rispetto, che hanno profondamente modificato anche i processi produttivi.

 

L’acronimo magico che ha favorito il cambiamento è HACCP

 

L’acronimo magico che ha favorito il cambiamento è HACCP, una serie di protocolli di sicurezza per i consumatori introdotti anche in Italia a fine anni ’90, che hanno profondamente modificato il modo di conservare i cibi prima e poi anche di prepararli.

L’esigenza di evitare che i cibi venissero in contatto con i batteri, con massimo rischio quando il cibo cotto si raffredda, ha portato all’introduzione del cosiddetto abbattitore, una macchina in grado di portare i cibi a temperatura da frigorifero (+4°) o da surgelatore (-18° e oltre), o viceversa, abbattendo oltre alla temperatura il rischio di contaminazioni. Il pesce crudo che consumiamo abitualmente, per intenderci, deve essere abbattuto a -20° per almeno 24 ore per uccidere alcuni parassiti assai nocivi per l’uomo. Ma non ce ne accorgiamo, perché la tecnologia dell’abbattimento rapido consente, proprio in virtù della rapidità, di prevenire la formazione di molecole di acqua all’interno dei tessuti del cibo, che rimane così totalmente integro, senza la spiacevole sensazione di surgelato che appartiene ai cibi estratti dai vecchi freezer casalinghi. Dunque sicurezza alimentare, vale per il pesce e per tutte le preparazioni destinate al frigorifero e al surgelatore, che permette anche una conservazione a lungo del cibo in condizioni organolettiche perfette.

Compagna inseparabile dell’abbattitore è la tecnologia del sottovuoto, anch’essa gravida di conseguenze e possibilità. Contenitori, ma soprattutto sacchetti che possono ospitare il cibo in assenza di aria, e dunque di pericoli di contaminazione, allungandone decisamente la vita. E consentendo una piccola rivoluzione dei processi produttivi. I cibi abbattuti e messi sottovuoto possono essere crudi o cotti, possono anche contenere ad esempio una marinatura, che fa evolvere il prodotto mentre lo conserva, o possono essere cotti direttamente nel sacchetto, così da mantenere intatte le caratteristiche organolettiche e i nutrienti.

Posso dunque prendere un polpo, un trancio di salmone, un petto di pollo, insacchettarlo con una marinatura di olio e spezie a scelta, cuocerlo in acqua o in forno per il tempo necessario, quasi sempre molte ore, a una temperatura controllata anche molto inferiore a 100°, abbattere il risultato e conservarlo per settimane, aprire il sacchetto, passarlo sulla griglia per ultimarne la cottura, impiattare aggiungendo un condimento e servire una pietanza che anche ai palati più raffinati risulterà deliziosa (se non si sbagliano la ricetta e i tempi e se la materia prima è di qualità, ovviamente). Parlo di 4.0 perché i macchinari di cottura e i sistemi che gestiscono le catene del freddo possono essere tutti programmati, interconnessi e controllati da remoto. Se considero un roastbeef cotto quando la temperatura al cuore sarà di 54°, posso impostare il mio forno trivalente (che cuoce normalmente, a vapore e a bassa temperatura) dotato di sonda a controllo remoto inserita nella carne perché si spenga al raggiungimento di quella temperatura e passi al mantenimento, col risultato che il mio roast beef cuocerà alla perfezione mentre dormo (e l’elettricità costa meno) e lo troverò pronto al mattino.

Quello che interessa anche chi non è appassionato di cucina sono le implicazioni di questa rivoluzione produttiva per il business della ristorazione, che sono essenzialmente due. La prima è un deciso spostamento dei pesi del processo produttivo e della sua organizzazione: se prima a garantire la qualità (stiamo sempre parlando di ristorazione di qualità, non di ristorazione industriale) era l’accento sul carattere espresso dei piatti, che dovevano essere fatti tutti al momento, ora la preparazione dei piatti è in qualche modo preponderante rispetto alla sua finitura, quello che viene fatto prima del servizio è quasi più importante di quello che viene fatto durante. In secondo luogo, se posso preparare la più parte di piatti anche gourmet molto prima di servirli, posso anche prepararli in un luogo e servirli in molti altri luoghi. Qui sta il cuore di una rivoluzione di cui si saranno accorti anche i più distratti: la moltiplicazione delle catene e dei punti di ristorazione anche legati a grandi chef.

Che certamente è conseguenza anche della liberalizzazione delle licenze e del boom del turismo nelle città, ma non sarebbe stata possibile senza i nuovi processi di preparazione in cucina consentiti dalle tecnologie. Che oggi si vanno sempre più diffondendo, anche perché consentono un risparmio in termini di capitale umano formato, ormai difficilissimo da reperire.

Cambia anche il mercato della fornitura, che oggi si estende sempre più a prodotti semilavorati, ad esempio porzionando e insacchettando sottovuoto tagli di carne o filetti di pesce. Si risparmia lavoro e, se è vero che si alzano i costi (dacché la materia prima semilavorata costa molto di più di quella grezza), si abbatte lo spreco avendo aumentato la conservabilità dei prodotti.

 

Anche nel mondo del cibo, la tecnologia trasforma il prodotto, aggiungendogli sempre una componente molto rilevante di servizio

 

Questo significa, anche nel mondo del cibo, che la tecnologia trasforma il prodotto, aggiungendogli sempre una componente molto rilevante di servizio. Se voglio fare arrivare il mio agnello, i miei broccoli o la mia ‘nduja sulle tavole di un ristorante a Roma o a Milano devo assolutamente considerare la filiera di distribuzione e la forma del prodotto, altrimenti posso vendere materia prima grezza a chi la trasforma, ma i margini saranno molto bassi. Allo stesso tempo, utilizzando quelle tecnologie, posso lavorare le mie verdure in minestrone a pochi metri dal campo e distribuirlo ovunque.

Significa anche, più in generale e per chi osserva l’evoluzione dei settori produttivi attraverso la lente dell’innovazione tecnologica, che bisogna guardare con grande attenzione, possibilmente predittiva, alle opportunità, e ai rischi di ogni innovazione. Per navigare quando il vento è a favore e prendere le contromisure quando è avverso.

È comunque necessario stare sempre di vedetta.

 

Foto di Kindel Media