
Dominique Meyer è una figura cardine della cultura europea, capace di coniugare competenze economiche, visione strategica e profonda sensibilità artistica. Nato in Francia nel 1955, ha iniziato il suo percorso nei ministeri francesi della Cultura e dell’Industria, per poi intraprendere una straordinaria carriera alla guida di teatri d’opera tra i più prestigiosi al mondo: l’Opéra National de Paris, il Théâtre des Champs-Élysées, l’Opera di Stato di Vienna.
Nel 2020 è stato nominato Sovrintendente e Direttore artistico del Teatro alla Scala di Milano, incarico che ha ricoperto fino al 2025, attraversando uno dei periodi più difficili per il mondo dello spettacolo. Con rigore e lungimiranza, ha ripensato modelli organizzativi, rilanciato la programmazione e ampliato il dialogo con il pubblico, puntando su innovazione digitale, inclusione sociale e valorizzazione delle giovani generazioni.
Meyer è anche accademico, appassionato divulgatore e protagonista del dibattito culturale europeo. Ha ricevuto numerose onorificenze internazionali e oggi continua a riflettere sul ruolo delle istituzioni culturali in un’epoca di cambiamenti profondi.
Dominique Meyer ci accoglie con la sua consueta gentilezza e inizia a raccontare con passione e concretezza il suo percorso, le figure che l’hanno ispirato e la sua visione del teatro come luogo vivo di saperi artigianali.
«I grandi teatri d’opera – e la Scala è certamente tra questi – sono anche, forse soprattutto, custodi di un sapere artigianale che a volte rischia di scomparire. Pensiamo ai costumi e all’arte di certe lavorazioni che si trovano solo nei laboratori di teatri come questi, o nell’alta moda. Pensiamo alla scenografia che necessità non solo di creatività ma soprattutto delle arti artigianali della scultura e della pittura solo per citare le più evidenti. Sono tutte competenze del fare, competenze tecniche e artistiche di altissimo livello.
È un lavoro artigiano che sta cambiando perché anche il modo di presentare gli spettacoli è cambiato: oggi c’è molta più tecnologia e innovazione. In questo contesto di cambiamento è importante non dimenticare ciò che ancora si tramanda nei laboratori di questi teatri: un artigianato vivo, fatto di mani esperte e di giovani che imparano da chi è venuto prima.
I laboratori dei grandi teatri d’opera e di prosa, come quello dell’Opéra di Parigi, quello di Vienna, quello della Comédie-Française, sono luoghi unici. Sono veri conservatori di capacità manuali e di artigianalità, di un patrimonio umano e culturale, dal valore inestimabile, che merita di essere riconosciuto e protetto.»
In un contesto come quello del teatro, che è anche bottega e luogo di maestri e apprendisti, chi l’ha veramente ispirata? Tra artisti che possono essere coreografi, costumisti, cantanti, direttori d’orchestra, registi… quali persone hanno lasciato un’impronta?
«È difficile dirlo. Per esempio, per quanto riguarda i direttori d’orchestra, ho avuto la fortuna di lavorare con quasi tutti, quindi è complicato scegliere. Che sia stato Muti, Chailly o Claudio Abbado a impressionarmi di più, non saprei dirlo: li ho incontrati tutti e mi considero fortunato per questo. Ho potuto collaborare con molti grandi artisti, ma devo dire che mi hanno colpito anche personalità un po’ particolari. Penso, ad esempio, al Ministro della Cultura con cui ho iniziato la mia carriera, Jacques Lang: una persona straordinaria, davvero fuori dal comune, che mi ha insegnato molto. Ho avuto incontri importanti anche nel mondo dello spettacolo: uno su tutti, Nureyev.»
Pensando allo spirito artigiano come dedizione assoluta al proprio mestiere, ci racconta qualcosa di Nureyev? Una figura che, per molti, incarna la perfezione del gesto e la disciplina estrema.
«Era davvero impressionante, anche se l’ho conosciuto verso la fine della sua carriera, negli ultimi anni di vita. Nonostante fosse già molto malato, aveva ancora quello sguardo che ti attraversava. L’ultima volta che l’ho visto è stato prima di una prima all’Opéra di Parigi. Ci siamo stretti la mano, senza dire una parola. Siamo rimasti così, mano nella mano, forse per due minuti. Aveva quello sguardo speciale… Era già molto provato, ma lavorando con lui avevi la sensazione di toccare un pezzo di storia, non solo artistica ma anche politica. Era impossibile non pensare al suo coraggio, al modo in cui era fuggito dalla Russia: all’aeroporto di Le Bourget, a Parigi, saltò una barriera per scappare. Un gesto davvero straordinario. Era una figura fuori dal comune.»
Era il 1961, un periodo in cui l’Unione Sovietica aveva ancora un’influenza molto importante.
«Sì, All’epoca in Russia volevano controllare gli artisti, ma lui non si è lasciato fare. Ha preso un rischio enorme, e l’ha pagato caro: è rimasto lontano dal suo paese, e soprattutto dalla sua famiglia, per tanti anni. Più tardi è tornato in Italia.
Ho avuto la grande fortuna di incontrare tutti i grandi maestri d’orchestra. Riccardo Muti, per esempio, è un caro amico. Ma anche Giorgio Strehler, con cui ho trascorso del tempo prezioso, così come con la coppia Ezio Frigerio e Franca Squarciapino. Hanno lavorato molto insieme, anche con me. Davvero, sono stato fortunato: la mia carriera è costellata da una galleria di ritratti eccezionali.»
Ci racconti qualcosa di Strehler. Se ricordo bene, era uno di quelli che diceva che il suo mestiere era un mestiere da “artigiano del palcoscenico”.
«Sì, sì, lo diceva, lo pensava davvero. Ed era anche molto divertente.
Era una persona molto libera nel modo di esprimersi. Mi ricordo un episodio, quando lavoravo all’inizio della mia carriera nel mondo della cultura. Una mattina sono arrivato molto presto in ufficio, come facevo ogni giorno. Era quell’orario in cui si sentono solo i rumori dell’aspirapolvere. A un certo punto, sento dei passi e una voce nell’ufficio del ministro. Vado a vedere… e c’era Giorgio, che camminava avanti e indietro in quell’ufficio ancora vuoto, gesticolando e parlando da solo.
A un certo punto si gira, mi vede e mi chiede: “Ma tu che ci fai qui?”.
Io, un po’ spiazzato, gli rispondo: “Ho un appuntamento col ministro”. Si conoscevano fin dall’adolescenza.
E lui, con assoluta naturalezza, mi dice: “E non vedi che sto provando?”.
Era così, aveva un grande senso della scena, anche nella vita. Poi, naturalmente, quando lo vedevi, potevi quasi dimenticare che fosse un attore. Ma lo era, eccome: recitava tutti i ruoli.
Mi ricordo anche quando mi ha fatto visitare il suo nuovo studio a Milano. Aveva organizzato una sorta di piccola recita con alcuni studenti: era adorabile.»
La fiducia è il collante invisibile di ogni organizzazione ed impresa, anche in un teatro come la Scala. Come si costruisce, in concreto, un rapporto di fiducia tra chi dirige – un direttore, un sovrintendente – e tutto ciò che sta dietro uno spettacolo, come l’orchestra stabile, i tecnici, il personale? Insomma, come si crea fiducia in un contesto così complesso?
«È una domanda importante. Il rapporto di fiducia non si trova già pronto: si costruisce. Ho avuto l’abitudine di dirigere grandi strutture, “mostri” come l’Opera di Vienna o la Scala. Ti ritrovi davanti a 900 persone, ognuna con la propria opinione. Quindi la fiducia va conquistata.
Il mio approccio è semplice: passo molto tempo con i dipendenti. Alla Scala, per esempio, andavo ogni giorno, salivo sul palcoscenico cinque o sei volte, conoscevo tutti i ragazzi, tutti.
Credo sia fondamentale mostrare rispetto per ognuno. Ma non si può parlare a tutti allo stesso modo: se ti rivolgi a un macchinista usando il vocabolario che useresti con un regista, sbagli.
Bisogna adattarsi, come quando si parla con un bambino: se ti poni dall’alto, non funziona. Devi metterti al suo livello, guardarlo negli occhi e trovare un linguaggio naturale.
La fiducia si costruisce anche con la presenza. Io cominciavo sempre molto presto la giornata, in modo da liberarmi il tempo per seguire le prove. È importante esserci fisicamente.
Ci sono giorni in cui non succede nulla, ma poi arriva quel momento – 10, 15 volte l’anno – in cui la tua presenza è necessaria: per mediare tra un regista e un direttore, o risolvere un problema tecnico tra chi ha curato l’allestimento e la direzione tecnica. Se sei lì, il problema non ha il tempo di ingigantirsi.
Naturalmente, se ti presenti solo all’ultima prova, non hai nessuna legittimità per dire qualcosa. Sei come uno spettatore, e non vieni preso sul serio.
L’orchestra è un’altra cosa. Guadagnarsi la fiducia dell’orchestra richiede tempo. Alla Scala non è stato facile all’inizio: erano piuttosto orgogliosi, diciamo così.
Una volta, dopo l’apertura della stagione sinfonica – avevamo eseguito la Terza di Mahler, diretta da Gatti, ed era venuta molto bene – ho organizzato un ricevimento. Volevo marcare l’importanza anche della stagione sinfonica, non solo del 7 dicembre.
Al ricevimento sono venuti cinque orchestrali. Mi hanno chiesto: “Allora, sei felice?”. E io: “No”. “Come mai? Non abbiamo suonato bene?”. “Sì, benissimo. Ma vi racconto una cosa”.
Un giorno, mio figlio – aveva 12 anni – il primo giorno di vacanza, passeggiando per Parigi, mi guarda e dice: “Papà, posso chiederti un consiglio?”. “Dimmi”. “Come posso ridurre la distanza tra il mio livello e i miei risultati in matematica?”.
L’ho abbracciato: è una domanda meravigliosa. Ho detto agli orchestrali: “Ecco, voi stasera mi avete dimostrato di poter suonare al massimo livello. Allora perché ci sono tante recite in cui questo livello non si raggiunge?”.
Uno di loro mi ha risposto: “Dipende dal direttore”.
E io: “Guarda, faccio questo mestiere da 35 anni, risparmiamoci queste scuse. Quando i primi violini stonano per 15 battute, non è colpa del direttore: è colpa della partita del giorno prima o delle vacanze imminenti”.
Mi ha guardato e ha detto: “Ah, non si può dire niente…”.
Però resta il fatto che Gatti, per esempio, è capace di tirar fuori il meglio da un’orchestra. Ma non è l’unico.
Il problema, soprattutto nei paesi latini, è la concentrazione. A Vienna, per esempio, queste cose non succedono. Hanno un senso della disciplina assoluta. Quando si fa un’opera difficile con poche prove, non si può pensare ad altro.
Noi latini siamo capaci di lasciar entrare altri pensieri nel momento meno opportuno.
Una volta, facevamo un brano con otto corni. Ho chiesto: “Perché il quinto corno lo suona un terzo?”.
Mi hanno risposto: “Eh, dovrebbe suonarlo un primo, ma da noi è consuetudine così”.
Io ho detto: “Altrove non è così. A Vienna sarebbe disonorevole far sedere un ‘estraneo’ su quella sedia”.
In alcuni brani, come quello in questione, il quinto corno – o la prima tuba – ha un ruolo fondamentale. Per questo io credo nei concorsi, che servono proprio a determinare chi occupa quale sedia.
Quando i musicisti sanno che sei competente, che conosci questi dettagli, ti rispettano.
Poi c’è un’altra parte importante del nostro lavoro: portare direttori validi, anche se non ancora famosi. Non solo i “soliti quattro o cinque”.
All’inizio, se presenti tre nomi sconosciuti, ti chiedono: “Ma chi sono?”. Poi lavorano con loro, vedono che sono bravi, e il rapporto cambia. È così che si costruisce fiducia.
Il balletto è un altro discorso, più delicato.
Nelle grandi case d’opera, il balletto è spesso trattato come qualcosa di secondario.
Questo dipende anche dall’organizzazione: l’opera si programma con tre o quattro anni di anticipo (quando si fa bene), il balletto viene incastrato dopo, nei “buchi” della programmazione lirica.
Molti miei colleghi si interessano più alla lirica che al balletto.
Io, invece, sono appassionato. Ho diretto per 16 anni il più grande gruppo di balletto contemporaneo francese, Preljocaj. Sono stato anche nel consiglio di amministrazione della compagnia Béjart.
Quando ero giovane lavoravo all’Opéra di Parigi, un punto di riferimento mondiale per il balletto.
All’inizio non era il mio campo, ma chiesi all’étoile dell’epoca di dedicarmi un’ora al giorno per insegnarmi tutto. Ho imparato così.
Ho passato ore alle prove, ho imparato i nomi di 150 ballerini: si crea una vicinanza.
E poi c’è un altro punto: spesso i balletti sono messi in scena con quattro cast diversi. È importante esserci a ogni recita, anche per i ruoli secondari, perché spesso vengono assegnati a giovani in crescita.
Per me il rispetto si guadagna così: con la presenza, con l’ascolto, con la porta sempre aperta.
Non è difficile. Serve solo buon senso, e tempo passato con le persone.»
Nel mondo complesso di un corpo di ballo, dove il lavoro collettivo richiede precisione e armonia, è inevitabile che emergano tensioni. Ci sono i conflitti? Come si affrontano?
«Certo che ci sono conflitti. È inevitabile. A volte i contrasti sono con i maestri di ballo, che devono far rispettare una certa disciplina.
Un gruppo di 80, 100, anche 150 ballerini – come all’Opéra di Parigi – è composto da 150 persone, non da angeli. Sono esseri umani, con i loro problemi.
Ci sono ragazzi che hanno difficoltà legate al peso, problemi fisici… E poi la carriera è molto breve, ma spesso è la fine della carriera ad essere particolarmente dura.
Si tratta, in fondo, di chiedere a ballerini e ballerine, che fanno un lavoro sportivo a tutti gli effetti, di proseguire troppo a lungo.
Non si chiede a un calciatore di giocare fino a quarant’anni mantenendo le stesse prestazioni: è ovvio che a quell’età non salti più come quando ne hai venti.
E qui c’è un problema sociale importante che, secondo me, nessuno vuole affrontare davvero.
A Vienna, per esempio, c’era una situazione anche peggiore di quella italiana. Lì si potevano licenziare le persone da un giorno all’altro, e non potevano nemmeno toccare la pensione fino ai 65 anni.
Io ero riuscito a trovare uno sponsor che finanziasse dei corsi di riqualificazione, per permettere ai ballerini di avviare una nuova vita, una seconda carriera.
Alla Scala, i ballerini vanno in pensione a 47 anni. Il che è paradossale: perché è vero che a 47 anni non puoi più danzare come a 25, ma non ci sono abbastanza ruoli previsti per chi ha quell’età. Così finiscono per restare “parcheggiati”, perdendo tempo e motivazione.
Secondo me, il sistema giusto sarebbe chiudere la carriera artistica a 39 anni e dedicare un anno – magari due – alla preparazione di una seconda professione.
Perché se vai in pensione a 47 anni, come oggi, è troppo tardi per reinventarti.
E poi, non possiamo pensare che diventino tutti insegnanti di danza: già adesso c’è un corso ogni dieci metri a Villa Ternia, è una follia.
Se invece si comincia a preparare questo passaggio intorno ai 38-39 anni, si può avviare una seconda carriera a 40. E visto che l’età lavorativa si è allungata, quella nuova carriera potrà durare più della prima.
È un tema serio, non secondario.»
Le vorrei fare un’ultima domanda. Lei ha portato molte innovazioni qui a Milano. Noi, da spettatori della Scala da tanti anni, abbiamo davvero percepito un cambiamento forte. Ma innovare in un luogo che custodisce la tradizione artigianale dell’opera è una sfida delicata.
Come si fa a tenere insieme la tradizione di teatri come la Scala, l’Opéra di Parigi o la Staatsoper di Vienna con l’innovazione? Lei ha coinvolto tantissimo i giovani, e oggi alla Scala si vedono molti più giovani di un tempo. Avete fatto cose importanti anche per un pubblico diverso da quello consueto. Ma tenere insieme tutto questo dev’essere complicato, no? Perché non si può nemmeno trasformare il teatro in un luogo solo per ragazzi…
«Il punto centrale, quando sono arrivato, era che la Scala era in crisi. Aveva perso il 40% degli abbonati.
E io vedevo un contrasto evidente: da un lato, una certa arroganza istituzionale, dall’altro, una sala in cui il fuoco si era spento. Il pubblico applaudiva per quindici secondi e poi correva a fare la fila per il taxi.
Non c’era più quella sensazione di “grande Scala”. Nessuno diceva: “Attenzione, siamo alla Scala”.
E questo atteggiamento mi dava fastidio, onestamente. Anche perché mi presentavano sempre come “il direttore del teatro più importante del mondo”. Ma anche a Vienna mi dicevano lo stesso. Penso che Peter Gelb alla Metropolitan dica la stessa cosa. Insomma, ci sono vari teatri che si definiscono i più importanti del mondo: è ridicolo.
A un certo punto ho detto: “Voi dite che siamo alla Scala. Ma io qui non vedo Rossini, né Donizetti, né Verdi, né Puccini, né Toscanini. Ce n’è solo uno che si chiama Riccardo. Gli altri non ci sono più”.
Questa gente ha costruito la leggenda. E quando guardi quel livello, ti viene un po’ di umiltà.
Il nostro compito è cercare di essere all’altezza. E non è affatto garantito. Anzi, è più facile fallire che riuscire.
Poi, devo essere sincero, ho anche sfruttato il Covid.
Mi ha permesso di incontrare tante persone, una a una. E ho scoperto che esiste una generazione giovane molto interessante.
Il 6 gennaio 2021, alle 11 del mattino, ho chiamato nel mio ufficio l’ingegnere responsabile della sicurezza e dell’edificio – che conoscevo bene, perché era stato in prima linea durante la pandemia – e gli ho detto: “Voglio fare un terremoto silenzioso. Ma un terremoto”.
Volevo creare consapevolezza sullo stato reale della Scala: un teatro orgoglioso, ma invecchiato.
Nel mio ufficio, ogni giorno, arrivava un signore con un foglio A3 con l’ordine delle prove. Lo appendeva a due chiodi dentro una cornice. Le buste paga arrivavano in busta di carta incollata.
Durante il Covid, dovevo fare un’intervista al TG2 tramite Skype. Ma Skype non funzionava nel mio ufficio perché… non c’era Internet.
Questa era la Scala.
Così ho detto all’ingegnere: “Creiamo uno shock, ma facciamoci anche degli alleati. Se io, che vengo da fuori, inizio facendo solo critiche, non avrò mai la squadra dalla mia parte. E le riforme si fanno solo con una squadra, non da soli”.
Gli ho proposto due idee.
La prima: un piano tecnologico. La tecnologia ha un pregio: ti permette di scannerizzare tutto senza accusare le persone. Ti dà un’immagine chiara dell’azienda.
Avevo già alcune idee: riformare il sistema informativo, installare una rete Internet seria, creare un sistema di streaming indipendente, sostituire il sistema dei sottotitoli con tablet in 6-7-8 lingue (a Vienna l’avevo già fatto e funzionava benissimo).
E poi lavorare sull’acustica, creare una nuova sala da concerto, rendere gli allestimenti più funzionali ed estetici.
La seconda idea: un piano verde.
Avevo scoperto che la Scala consumava 10 tonnellate di carta all’anno. Una cifra scandalosa, che indica un problema profondo.
Dopo tre giorni, l’ingegnere è tornato con il suo vice e una lista di proposte.
Io gli ho detto: “Non voglio gente che si perda in mille cautele. Voglio una ‘caterpillar’ che vada avanti”.
Abbiamo coinvolto tutti. Abbiamo fatto una quarantina di riunioni. All’inizio erano difficili: la gente voleva solo dimostrare di saper parlare.
Io dicevo: “Scusatemi, non sono italiano. Quindi, se non capisco, non è colpa mia. Se volete farmi i complimenti, non capisco. Se volete parlarmi chiaro, invece, capisco tutto”.
E così, a poco a poco, ha funzionato.
Il piano verde ha avuto un effetto enorme.
Oggi la Scala consuma un terzo in meno di energia rispetto al 2019. E questo significa una bolletta più leggera, nonostante l’aumento dei prezzi. E un taglio di un terzo delle emissioni di CO₂.
E la cosa più bella è che la gente ne è orgogliosa.
Poi abbiamo aggiunto altri due piani.
Volevamo caricare la barca fin dall’inizio. Abbiamo fatto un piano di inclusione. Vedevo cose che non mi piacevano: un po’ di bullismo, qualche umiliazione.
E poi c’erano questi 40 o 50 stagisti, in gran parte ragazze, che arrivano dall’Accademia. Entrano alla Scala sperando di restare, e quindi sono in una posizione di debolezza.
Io pensavo: meglio creare un sistema prima che succeda qualcosa, piuttosto che dover correggere dopo.
È stato difficilissimo. Ho dovuto affrontare battute, barzellette, ironie.
Ma abbiamo avviato un piano di formazione. E, per dare l’esempio, ho partecipato anche io. Tutto il comitato di direzione lo ha fatto.
Anche i due o tre ragazzi più “brillanti”, quelli che tendevano a esagerare un po’, li ho convocati nel mio ufficio.
Ho detto loro: “State attenti. Siete i primi a rischiare. Viviamo in una società in cui molte cose considerate normali… non lo sono. Basta cambiare la prospettiva, e qualcosa che prima passava inosservato diventa inaccettabile”.
Abbiamo attivato un sistema di segnalazione e, in effetti, alcune cose sono emerse.
Infine, abbiamo avviato un quarto programma, dedicato alle persone con disabilità.
Spesso si pensa alle sedie a rotelle, ma non è solo quello.
Esistono tecnologie nuove, in continua evoluzione, che permettono a chi ha problemi di vista o di udito di partecipare pienamente agli spettacoli. E funzionano benissimo. Credo che in questo campo ci saranno progressi enormi.
Infine, abbiamo rifatto da cima a fondo tutto il sistema di vendita dei biglietti e quello degli abbonamenti.
Erano sistemi vecchi di trent’anni. Ora sono finalmente al passo con i tempi.»
Oggi è tutto molto più semplice e accessibile.
«Sì, ancora una volta, sono solo cose di buon senso.
Devo dire che, all’inizio, mi sono spaventato. Ho pensato: “Qui ci sono due, forse tre opzioni. La prima: non restare. La seconda: occuparmi solo dell’aspetto artistico e lasciare andare la barca alla deriva”.
Ma poi ho riflettuto: se mi hanno scelto, nonostante la mia lunga esperienza, probabilmente c’è davvero la volontà di migliorare le cose.
Così mi è venuta in mente l’immagine dell’orto di mia nonna. Dopo vent’anni di abbandono, l’ho riguardato e ho pensato: “Cominciamo da un metro quadro. Poi vedremo”.
E a poco a poco, devo dire, sono stato felice.
Perché il teatro mi ha seguito con entusiasmo. Ho chiesto molto, moltissimo. Ma tutto questo lavoro è stato fatto come parte della quotidianità, senza aggiungere risorse.
E soprattutto, lo abbiamo fatto in modo economico.
Tutto il piano tecnologico, tutto il piano energetico… li abbiamo realizzati senza che il budget della Scala dovesse aumentare.»
C’è uno spettacolo del quale è particolarmente orgoglioso nei suoi anni alla Scala?
«Orgoglioso? No, non sono una persona che si definisce orgogliosa…»
Ma qualcosa che senza di lei non si sarebbe realizzato?
«Beh, sì, ci sono alcune cose. Per esempio, il lavoro sulle origini dell’opera lirica italiana.
Il mio predecessore aveva avviato un ciclo barocco, ben fatto, ma incentrato su Händel. Ora, io ho diretto 40 opere di Händel nella mia vita.
Ma mi sono detto: siamo nel paese dove quest’arte è nata, perché non andare a riscoprirne le radici più autentiche?
E così abbiamo messo in scena Cesti, Cavalli, Leonardo Vinci, e altri autori.
Era musica dimenticata, che la gente non conosceva più. Eppure, se ne è appassionata.
Poi c’è un progetto molto particolare, che debutterà tra qualche giorno: Il nome della rosa, tratto dal romanzo di Umberto Eco. È stato un lavoro di cinque anni.
Per me è strano non poterne seguire le prove, come se fossi una donna incinta che non può assistere alla nascita del proprio bambino. È un sentimento… un po’ strano.»
(L’intervista è stata condotta da Marco Grazioli, Presidente di The European House Ambrosetti)

Marco Grazioli
Di formazione sociologica, studia in particolare come trasformare i comportamenti delle Persone in risultati di business attraverso le leve organizzative e la gestione del Personale. Un’ulteriore area di consolidata esperienza è quella della gestione di negoziazioni complesse, in diversi contesti e settori.
Attualmente insegna Processi Decisionali e Negoziali nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È stato Ricercatore presso l’Università Statale di Milano (Cattedra di Sociologia Politica).
È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali il libro “Come si decide in azienda” (Fendac Servizi, con Paolo Donati), i saggi sulla mobilitazione di gruppo e sulla relazione tra giovani e organizzazione (in Altri Codici, Il Mulino), il capitolo “La formazione” nel volume “L’azienda del futuro” (Il Sole 24 Ore) e i libri: “Cambiamenti – Azione collettiva e intrecci organizzativi in un’epoca di crisi” (Rubbettino Editore, 2012) e “Creare governare e dirigere“ (Alinari 2015, con Carlo Adelio Galimberti); “Il lavoro non ha età – Stili vocazionali e leadership in azione” (Guerini Next 2020, Eva Giudicatti – Introduzione e contributi di Marco Grazioli).