(di Mauro Magatti) Negli ultimi decenni, in tutti i paesi occidentali si è assistito al progressivo spostamento di valore aggiunto dal lavoro – nelle sue varie forme, indipendente e autonomo – verso le diverse forme della rendita: finanziaria, immobiliare, pubblica. Una perdita di centralità che si è prodotta anche sul piano culturale: nelle società avanzate, nel lungo ciclo associato all’espansione della globalizzazione, il lavoro è sempre meno stato capace di essere un fattore di identità e di senso, a tutto vantaggio del consumo, proposto come veicolo di realizzazione personale.

Si tratta di trasformazioni profonde che hanno a che fare il cambiamento intervenuto nell’idea stessa di valore:

 

ciò che spinge avanti il mondo non sono più tanto l’iniziativa o la creatività dell’azione umana quanto piuttosto la tecnologia e i grandi sistemi organizzati che si manifestano poi attraverso l’espansione dei nuovi mercati, la stimolazione comunicativa, lo sfruttamento delle risorse naturali e, non ultima, la speculazione finanziaria.

 

Un tale modello ha degli indubbi meriti considerato il salto che il mondo nel suo insieme ha fatto registrare a cavallo tra XX e XXI secolo, quando il Pil globale è raddoppiato in vent’anni. Ma ora, in modo sempre più pressante, essa ci presenta i suoi lati oscuri in termini di aumento dell’entropia e dell’antropia.

Quello che vediamo ormai da diversi anni è un mondo sconquassato da shock sempre più pesanti (la crisi finanziaria, la pandemia, e ora il rischio di una devastante guerra globale). Mentre se vogliamo essere realistici dobbiamo riconoscere che davanti a noi abbiamo delle vere e proprie montagne da scalare. A partire dalla questione del riscaldamento globale, del governo dei flussi migratori, del rapporto tra le diverse civiltà, fino al tema delle disuguaglianze diffuse e radicali che creano un forte e diffuso risentimento un po’ ovunque. Per quanto riguarda le nostre società ciò si traduce nel disagio di larga parte del ceto medio – dipendente e autonomo – sempre più in difficoltà di fronte a costi economici e a complessità tecnica crescenti. Oltre che a un diffuso disagio giovanile che si manifesta in una sorta di incertezza generazionale che sembra bloccare molti dei nostri giovani, quasi impauriti dal futuro che li aspetta. Un disagio che dal punto di vista politico si traduce poi nelle forti spinte populiste che attraversano le democrazie occidentali.

Per superare queste difficoltà non c’è altro modo che ritornare all’idea originaria di sviluppo economico: di fronte ai problemi che dobbiamo affrontare viene il momento per riflettere sul fatto che lo sviluppo è prima di tutto espressione della capacità umana di creare valore attraverso la propria azione, dentro contesti tecnici e organizzati che accrescono la capacità di azione individuale e collettiva.

Al di là dei mille fattori di preoccupazione, cio che c’è di buono nei mesi difficili che stiamo vivendo è la forte sollecitazione a un cambiamento che va sostenuto e alimentato.

Tale trasformazione ruota attorno a un punto centrale: tornare a convincerci che la prosperità economica, sociale e istituzionale di un paese (e del mondo intero) ha fondamentalmente a che fare con la capacità di creare valore per addizione e non per sottrazione. Un processo che dipende in maniera decisiva dalla qualità del lavoro e con esso dalle ragioni e dalle motivazione in grado di mobilitare le energie psichiche e spirituali delle persone. È così esaltare la creatività e lo spirito di iniziativa diffuse.

 

Il nocciolo della questione è semplice: la prosperità ha a che fare col tipo di beni che si producono e con le modalità della loro produzione. Non solo standardizzazione e quantità ma anche differenziazione e qualità. Non solo tecnologia e organizzazione sistemica, ma anche creatività e personalizzazione. Non solo interesse individuale, ma anche valore condiviso.

 

Tutto ciò va nella direzione di un recupero di filiere corte basate sull’economia circolare che combattono lo spreco e sono capaci di rimettere in circolo le materie già utilizzate in una prospettiva di valorizzazione che mette a regime l’intelligenza diffusa. Cioè, di nuovo, del lavoro come matrice di ricchezza materiale e benessere psichico.

Negli anni difficili che stiamo vivendo, si intravvede la possibilità di realizzare un passaggio importante: il superamento della crescita puramente consumeristica e trainata dalla globalizzazione espansiva nella direzione di una rinnovata centralità del lavoro che crea valore in un contesto di differenze territoriali porose e interdipendenti. Nella logica della sostenibilità e compatibilmente con i processi di digitalizzazione

Ciò richiede un cambiamento di rotta che fa perno su tre principi generali.

Il primo è la centralità della formazione non solo astratta e formale ma concreta e legata al nuovo e alla creatività. Di formazione si parla spesso a sproposito, eppure non si può nemmeno pensare al futuro che ci aspetta senza renderla un cardine del nostro modo di fare, di vivere, di essere. Una formazione che ovviamente non è solo scolastica, ma che diventa capace di intrecciarsi con il lavoro, visto come luogo dell’esperienza concreta. E che proprio per questo diventa un processo che dura tutta la vita, ricreando quel legame tra le generazioni che sembra essersi spezzato irrimediabilmente.

Il secondo principio è un’azione decisa sulla tassazione che oggi sposta enormi risorse, spesso nella direzione sbagliata. Sappiamo che, soprattutto in Italia, il lavoro è ampiamente penalizzato a vantaggio di altre forme di generazione di reddito. Tale distorsione va decisamente corretta ripensando il modo in cui vengono raccolte e distribuite le risorse pubbliche, valorizzando chi crea lavoro – e così valore – e semmai penalizzando chi invece distrugge risorse ed estrae ricchezza dalla comunità. Il tema della tassazione costituisce una delle leve più potenti per genare il cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Infine, il terzo principio riguarda la rigenerazione dei territori, visti come luoghi di apprendimento e contribuzione collettiva. Il tema dei luoghi è fondamentale in quest’epoca in cui ci stiamo incamminando verso un nuovo modello di sviluppo. Come mostra la crisi del covid prima e dell’Ucraina poi, è finito il tempo della globalizzazione selvaggia. L’interdipendenza globale è un dato di fatto e non è certamente reversibile. Ma è al tempo stesso sempre più evidente che si vanno ricreando condizioni nelle quali a essere decisivo è lo sviluppo congiunto dell’economia e delle comunità. In un disegno in cui il sapere umano risulta essere una risorse essenziale, che si qualifica come esperienza concreta di che è capace di generare valore per sé e per gli altri.