Una delle cose che più colpiscono nel visitare le imprese artigiane oggi è la pressoché totale unanimità con cui, indipendentemente dal luogo e dal settore, indicano nel capitale umano il bisogno prioritario.
Pur in una congiuntura di poco invidiabile competizione fra avversità, dal caro energia all’inflazione alla mancanza di materie prime, la ormai strutturale difficoltà nel reperire collaboratori spicca come il problema più spaventoso. Perché le imprese artigiane sono fatte innanzitutto di persone e delle competenze e conoscenze che esse posseggono e trasmettono, e perché, anche presso i meno sociologicamente avveduti, risulta sempre più chiaro che non si tratta di un problema grave ma passeggero, ma di un dato strutturale, di una fonte che si è disseccata.
Molto, e di diversa qualità e spessore, si è detto sui cambiamenti del mercato del lavoro che sono emersi in modo dirompente nel lungo post-pandemia.
Dalle versioni più letterarie del “Big Quit”, sospinto dalla costatazione che “si vive una volta sola” (YOLO) alla più fondate considerazioni sul tema attualissimo ed esplosivo dei bassi salari, dal crescente divario tra formazione e domanda delle imprese alla questione bruciante della demografia, lo sbilanciamento tra offerta di lavoro crescente e domanda sempre più scarsa è un tema che merita attenzione non corriva.
I contributi su formazione e demografia di Giulio Sapelli e di Alessandro Rosina per i Quaderni della Fondazione Germozzi, hanno autorevolmente inquadrato un problema, la scarsità e lo spreco di capitale umano in età lavorativa in un Paese sempre più anziano e de-popolato, che già oggi si riflette sul nostro sistema produttivo e in prospettiva futura rischia di indebolirlo ulteriormente.
Su tutti vi è la questione del calo demografico, che restringe decisamente le coorti in formazione e accesso al lavoro, a fronte peraltro di un deciso allungamento dell’aspettativa di vita e dunque di italiani e lavoratori sempre più anziani.
La richiesta di collaboratori è crescente e inesausta, non solo nell’artigianato, ma pressoché in ogni settore della manifattura e dei servizi. Si cercano braccia, si cercano ancora di più competenze, anche minimali, e attitudine a imparare e lavorare in contesti tradizionali, spesso molto diversi da quelli che i media raccontano come ideali e che hanno dato forma a un sistema di aspettative che rende i giovani disponibili, che sono sempre meno in termini assoluti, certamente più selettivi dei loro predecessori, anche perché in un mercato a offerta superiore alla domanda possono permetterselo.
È lo spirito dei tempi, e le spiegazioni mono causali, il reddito di cittadinanza, non certo esauriscono il problema, come assai poco convincono, e ad assai poco servono, le lamentele generazionali sui giovani che non hanno voglia di lavorare.
Il mercato del lavoro è cambiato perché sono cambiate l’economia, la società, l’antropologia, il sistema di simboli e aspettative sulle quali si reggeva, soprattutto nel caso del lavoro artigiano. Quella componente di promozione, dovere, riscatto che spingeva molti giovani ad “andare a bottega” per consolidare una posizione lavorativa e sociale all’interno di contesti culturali e territoriali di prossimità e che mutavano molto lentamente non esiste più, almeno come fenomeno di massa a chilometro zero. Per questo molti artigiani non trovano più persone disposte a venire a lavorare nelle condizioni storiche in cui questo è avvenuto per oltre un secolo. Perché, grazie anche al loro successo, vivono e operano in un contesto sociale più mobile territorialmente e culturalmente, certamente senza più il culto del lavoro come culto della fatica fisica o come attività totalizzante all’interno di percorsi di vita molto rigidamente definiti. Vale per i figli degli stessi artigiani, che spesso sono stati, come chi scrive, i primi a studiare e dunque a mettere in discussione anche senza volerlo i valori della famiglia di origine, perché non dovrebbe per chi è esterno a questo mondo?
Un cambio così radicale di prospettiva impone al sistema produttivo a valore artigiano un profondo ripensamento su come gestire in prospettiva e in un mondo in vorticoso cambiamento il futuro della sua componente principale, ossia le persone. Un cambio di prospettiva che non solo deve essere radicale e rapido, ma abbastanza strategico e “furbo” da aderire alle sempre più evidenti pieghe della società in cambiamento e fare del lavoro a valore artigiano non una ridotta di ultimi giapponesi, ma una prospettiva di lavoro e di vita alternativa, sana e sostenibile, anche più del mainstream.
Chi scrive non ha, purtroppo, una compiuta ricetta, né forse essa è possibile data la natura vastissima e multiforme del valore artigiano. In questa fase è però possibile avanzare alcune considerazioni e contributi di riflessione, nella speranza che questi possano far nascere un dibattito interno ed esterno al sistema artigiano, da cui potranno scaturire proposte, modelli, esperienze.
Il problema del senso del lavoro in un mondo che cambia
Dopo la pandemia molti osservatori si sono interrogati su come un’esperienza così improvvisa e totalizzante abbia scosso molti individui, agevolando ripensamenti anche radicali su scelte di vita e di lavoro che si ritenevano ormai consolidate. In una prospettiva più strutturale e di lungo periodo, la pandemia e le successive crisi hanno catalizzato alcune trasformazioni del sistema capitalistico che covavano da tempo sotto la cenere.
Sono emerse tutte le criticità di un sistema di lavoro basato sulle metropoli e i servizi avanzati, che aveva come paradigma il mito del lavoro da Google. La stessa Google, analogamente a tutti i giganti dell’high tech due settimane fa ha annunciato il licenziamento di 12.000 collaboratori, il 6% della forza lavoro globale.
Tecnologie come l’intelligenza artificiale, che di recente hanno catturato l’attenzione dell’opinione pubblica nella loro forma più semplice e pervasiva come nel caso di ChatGPT, disegnano un futuro mercato del lavoro nel quale molte figure professionali anche nel mondo ideale dei servizi avanzati saranno a concreto rischio obsolescenza o marginalizzazione.
La manifattura è tornata al centro delle politiche e della geopolitica, rimettendo in discussione a partire dagli Stati Uniti percorsi di sviluppo che volevano l’Occidente tutto chino sul consumo e sullo sviluppo di servizi e tecnologia, che oggi sono con tutta evidenza non più garanzia di benessere distribuito.
Le critiche radicali e un po’ millenaristiche, in particolari delle giovani generazioni, all’impatto ambientale dei modelli di sviluppo sono anche più estesamente critiche alla perdita di senso del capitalismo avanzato, a partire proprio dalla sua difficoltà a promuovere un progresso ordinato attraverso il lavoro.
Il valore artigiano, espresso in un modello di vita e di lavoro “paziente” e attento alla dimensione umana individuale e collettiva delle comunità in cui le aziende artigiane principalmente operano, può inserirsi negli interstizi di un capitalismo globale sempre meno sostenibile e porsi come alternativa umanistica credibile.
Giovani, tecnologie, luoghi, salari e gerarchie in un mondo piatto
Anche i più radicali critici del tradimento del capitalismo maturo tra i giovani sono però fondamentalmente uomini e donne del proprio tempo, con un immaginario e delle aspettative dalle quali non è possibile, né utile, prescindere. Innanzitutto, la tecnologia, il suo potere di ridisegnare lo scenario e di fare del cambiamento un dato strutturale. Non è più pensabile immaginare di essere attrattivi per i giovani offrendo contesti lavorativi completamente statici, nei quali non solo è assente la tecnologia, ma soprattutto ne è del tutto assente il mindset, fatto di cambiamento, collaborazione, ascolto. Anche in contesti strettamente gerarchici e iper-consolidati sulla base dell’esperienza, non è più possibile immaginare che giovani per i quali la conoscenza è tutta disponibile in tasca abbiano la medesima disponibilità di un tempo a stare zitti e a imparare. Qui sta uno dei principali nodi di incomprensione e anche di spreco di risorse: qualunque organizzazione all’altezza dell’era digitale non è anarchica, ma piatta, perché l’innovazione procede così velocemente che ognuno può esserne portatore. La relazione proficua con una nuova risorsa in azienda non può che fondarsi dunque su una forma, ovviamente non equa almeno all’inizio, di scambio tra il sapere consolidato e il punto di vista della generazione digitale in un contesto comunque più aperto al cambiamento. Cambiamento che non può che riguardare anche i luoghi della produzione, l’organizzazione del lavoro e, punto dolente, la sua remunerazione. Non si tratta di una resa ai nuovi barbari, ma di recuperare condizioni di competitività in un mercato che cambia, anche facendo leva sul concetto di imprenditorialità, ossia di positiva attitudine al cambiamento, nel quale giovani e artigiani potrebbero costituire un connubio assai interessante.
Gli artigiani del futuro potrebbero non essere solo giovani
L’Italia, come ha spiegato molto bene Alessandro Rosina nel suo saggio per i tipi della Fondazione Germozzi, è già oggi il Paese europeo con la forza lavoro complessivamente più anziana (proporzionalmente anche più del rapporto fra giovani e anziani nella popolazione, già molto sbilanciato a favore dei secondi). Con, al 2020, il 37% dei lavoratori over 50, contro il 22% under 35, il nostro Paese ha e soprattutto avrà un problema molto serio di age management in un contesto peraltro come sappiamo di spaventosa accelerazione tecnologica. Non è, per soprammercato, ovviamente praticabile alcuna soluzione di prepensionamento lungo e generalizzato, che peraltro renderebbe l’equilibrio demografico e i conti pubblici ancora più insostenibili. La gestione del mix generazionale sarà uno dei grandi temi per le organizzazioni del futuro e costringe a pensare fuori dalla scatola, con ampie dosi di creatività. Magari anche immaginando percorsi inversi nei quali, perché no, chi ha svolto una carriera in settori come le banche, nei quali semplicemente tutto è cambiato, possa immaginare nuove sfide professionali in una bottega artigiana, con la possibilità di trasformare in mestiere la passione di una vita.
Il lavoro artigiano dentro e fuori dal mondo
Il lavoro a valore artigiano è un sistema di valori trasversali, con al centro l’uomo e il suo saper fare, che si ritrova in contesti ad alto tasso di innovazione come in esperienze uniche come i mestieri d’arte (e nel largo mezzo fra questi estremi). I mestieri d’arte, che non esauriscono come si vorrebbe riduttivamente l’artigianato, soffrono anch’essi di questa perdita di sincronia con il mercato del lavoro all’esterno, acuita dall’essere luoghi in cui “lavoro” ha un’accezione parzialmente diversa dagli altri. Dai telai di bicicletta su misura di maestri come Doriano De Rosa alle carrozzerie di Modena che restaurano meravigliose Ferrari e Lamborghini d’epoca tutte le aziende della sartoria artigiana soffrono la mancanza di manodopera pur a fronte di mercati globali e di una domanda più che solida, che non teme costi e tempi perché compra italiano e artigiano per passione. È una crisi occupazionale al contrario, che non è soprattutto per loro possibile pensare di arginare per via giuslavoristica o con nuova formazione (che pure serve, sempre), ma lavorando sul concetto, a-temporale e a-spaziale, di vocazione. Perché lavorare due anni su una Ferrari d’epoca anche con micro gesti molto ripetitivi ha senso oggi solo per coloro i quali vedono in questa esperienza non più un lavoro come un tempo, ma una risposta alle proprie passioni e a quella crisi del senso che si diceva prima. Ci sono queste persone, bisogna conoscerle.
Come successo in un settore profondamente artigiano come l’alta ristorazione, la vocazione è stata la leva per richiamare anche nella sperduta provincia italiana legioni di stagisti di tutto il mondo venuti ad imparare la nostra cucina, di cui oggi sono ambasciatori nel mondo. Il modello possibile oggi non può essere che quello: raccontare il lavoro artigiano per quello che può essere, ossia esperienza anche totalizzante perché riempie la vita, e farne un approdo possibile ai tantissimi che in Italia e nel mondo cercano un senso per la loro vita. Possono anche essere giovani, ci sono, che a metà del loro percorso di studi universitari capiscono che preferiscono armeggiare su un motore, o lavoratori espulsi dai processi produttivi.
Per raggiungerli bisogna imparare a raccontare meglio l’esperienza e il senso del lavoro a valore artigiano, per chi lo acquista e per chi può pensare di farne il proprio lavoro e la propria vita, figure che spesso coincidono.
Perché molto è cambiato, certo, ma non è detto che il futuro non sarà artigiano.
Paolo Manfredi
Milanese, 50 anni. È consulente per la Trasformazione digitale, ideatore e responsabile del progetto Artibici e responsabile del Progetto speciale PNRR di Confartigianato Imprese. Ha studiato Storia contemporanea. Scrive di innovazione, politica e ristoranti. È autore di “L’economia del su misura. Artigiani, innovazione, digitale” (2016), “Provincia non Periferia. Innovare le diversità italiane” (2016) e di “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” (2023). Da settembre 2019 cura il blog “Grimpeur. Scalare la montagna dell’innovazione inclusiva” sulla pagina web di Nòva del Sole 24 Ore.