Dalla pandemia perdurante alla cruenta guerra alle porte dell’Europa; dalla corsa dei prezzi delle materie prime all’ottovolante dell’inflazione; dal caro-bollette, che toglie il sonno a famiglie e imprese, all’ormai acquisita consapevolezza che l’energia non è più una commodity sempre disponibile in quantità illimitate, fino al paventato rischio di un razionamento invernale delle forniture; dalla pressoché inedita parità euro-dollaro al rialzo dei tassi d’interesse da parte della Bce e della Fed al di là dell’Atlantico; dalla sequenza di fenomeni naturali estremi (il caldo torrido e la siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, le piogge intense e le alluvioni) fino al crepuscolo dell’antropocentrismo come modus vivendi, inteso come l’idea di un dominio onnipotente dell’“io” sugli eventi e sul mondo, sostituito adesso dal primato della sostenibilità ambientale e dall’ecologismo come nuovo paradigma della cultura collettiva. Ci sono tutti i presupposti per segnalare una forte discontinuità del contesto rispetto al passato, l’ingresso in una nuova epoca. E se ci si interroga su quale sarà il futuro della globalizzazione, dopo la lettura apologetica degli ultimi trent’anni, spunta un neologismo: friend-shoring. Che vuol dire ‒ nelle parole di Janet Yellen, segretario al Tesoro degli Stati Uniti ‒ che in prospettiva si dovranno confinare le catene globali del valore e gli scambi internazionali entro un perimetro definito solo dagli Stati che con noi condividono i nostri stessi valori fondanti di democrazia e libertà ‒ che è un modo edulcorato per dire “seconda guerra fredda”.

Più che di “fine dell’era dell’abbondanza” (Macron) ‒ affermazione che suona come un tardivo bilancio, più che un annuncio epocale ‒ dovremmo parlare di uno scenario radicalmente modificato, con l’inflazione riapparsa dopo quattro decenni a segnare uno spartiacque anche rispetto a quello schema dicotomico “garantiti” versus “non garantiti” che era ancora applicabile nella fase più dura dell’emergenza sanitaria. Perché l’erosione del potere d’acquisto causata soprattutto dai rialzi del costo dell’energia interessa adesso anche i percettori di redditi fissi, lavoratori dipendenti e pensionati, e non più solo le piccole imprese e i lavoratori autonomi. In più, l’alta inflazione depotenzia pure lo scudo finora utilizzato dalle famiglie del ceto medio per proteggersi dall’incertezza: il risparmio precauzionale e la rassicurante liquidità cautelativa.

 

La reazione all’incertezza

Facciamo un passo indietro. Come aveva reagito il nostro sistema sociale ed economico al quadro di incertezza che si stava componendo già da tempo? Aveva reagito all’insegna di una parola d’ordine: competitività. Occorreva diventare competitivi per sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione, quindi integrarci al meglio nelle catene globali del valore e presidiare i mercati esteri.
La prima declinazione di questa ricetta comportava innanzitutto il precetto di tenere bassi i costi di produzione. Infatti, le retribuzioni lorde medie annue in Italia sono diminuite del 2,9% in termini reali tra il 1990 e il 2020, unico caso tra tutti i Paesi dell’area Ocse. Nello stesso intervallo di tempo, infatti, misurati a parità di potere di acquisto (cioè neutralizzando i differenziali del costo della vita nei diversi Paesi), i salari in Francia sono aumentati del 31,1%, in Germania del 33,7%, nel Regno Unito del 44,3%. La riduzione delle retribuzioni in Italia è avvenuta mentre, nello stesso periodo 1990-2020, la produttività del lavoro (il valore aggiunto per ora lavorata) registrava un incremento del 21,9%. È stato certamente più facile intervenire su quel fattore di costo, piuttosto che su altri di difficile contenimento (il prezzo di una burocrazia ipertrofica e vessatoria, ad esempio, la salata bolletta energetica o l’elevata pressione fiscale).
La seconda declinazione del modello della competitività consisteva nel mettere un freno alla spesa pubblica, nel rispetto dei parametri europei di finanza pubblica. Con il risultato che, invece di agire sulla spesa corrente, nel decennio pre-pandemia (2009-2019) gli investimenti pubblici hanno subito un crollo del 34,8%.
Risultato? Il primo effetto è stato senz’altro positivo. Abbiamo registrato un vero e proprio boom delle nostre esportazioni: +43,9% nel decennio 2009-2019. Che però ha mascherato una prolungata depressione della domanda interna: i consumi delle famiglie italiane, infatti, non hanno mai recuperato i livelli pre-crisi, con riferimento alla grande crisi economica e finanziaria internazionale del 2008. Nel 2021 restavano sotto ancora di 8 punti percentuali rispetto ad allora, come conseguenza anche della pesante recessione del 2020.
Poiché l’export vale solo circa un terzo del nostro Pil, il risultato finale della ricetta, nonostante il successo del made in Italy nel mondo, è stato una bassa crescita economica del Paese: uno stentato +2,7% nel decennio pre-pandemia (2009-2019) a fronte di una media europea pari a +16,9%. L’Italia è figurata ultima in Europa in termini di crescita. Per la verità, sotto di noi si collocava un solo Paese: la Grecia commissariata dalla troika.
Nel frattempo, tra le famiglie, attanagliate dall’incertezza, si gonfiava una bolla del risparmio, che ha portato il portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie (esclusa la ricchezza concentrata negli immobili di proprietà) a toccare il valore record di 5.000 miliardi di euro. In particolare, a crescere di più è stata la liquidità precauzionale: soldi tenuti fermi sui conti correnti e sottratti ai circuiti dell’economia reale, cioè consumi e investimenti. La liquidità delle famiglie ha superato i 1.200 miliardi di euro: una cifra che corrisponderebbe alla sesta economia europea, dopo il Pil di Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna. L’incremento di liquidità delle famiglie nel decennio 2009-2019 è stato pari a circa 470 miliardi: un valore pari alla somma del Pil di due Paesi europei come il Portogallo e l’Ungheria.

 

Come affrontare il nuovo mondo

L’analisi di quanto avvenuto nel recente passato deve fornirci indicazioni utili per imparare a stare al mondo nel nuovo mondo. Ci siamo glorificati all’ombra dei successi del nostro export ‒ un irrinunciabile valore economico e anche di tipo immateriale, se si pensa a quanto ne benefici la reputazione del nostro Paese nel mondo ‒, ma adesso non possiamo più permetterci di ristagnare ancora nella depressione della domanda interna. Una domanda cui guarda con apprensione il sistema delle piccole e medie imprese artigiane, anche e soprattutto per scongiurare il rischio che il nostro patrimonio di impresa diffusa di territorio vada incontro a una pericolosa fase di ristrutturazione, qualora entrassimo in un nuovo, duro ciclo recessivo.

 

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