Le democrazie moderne, turbate dalle roventi polemiche provocate dagli obblighi e dai divieti imposti da presunti governi liberticidi durante l’emergenza sanitaria globale, dovranno confrontarsi con un nuovo interrogativo lacerante.  

La paura nera di un microscopico virus ci ha riportato alla nuda vita. Abbiamo perciò sopportato temporaneamente restrizioni alle libertà personali che non avevano precedenti nella nostra storia repubblicana. Eppure, se ci guardiamo intorno, vediamo che la libertà manca ovunque nel mondo. Oggi soltanto il 20% della popolazione del pianeta gode di una piena libertà. In Africa la percentuale scende al 7%, in Asia si ferma al 5%, in Medio Oriente crolla al 4%, nell’Eurasia – regione che ricomprende la Russia, la Bielorussia, le ex repubbliche sovietiche centroasiatiche – si annulla allo 0%. Inoltre, nel tempo le cose peggiorano, anziché migliorare.

 

Dall’inizio degli anni 2000, il numero dei Paesi che arretrano nel garantire il rispetto dei diritti civili e delle libertà politiche supera ogni anno il numero di quelli che avanzano

 

Si prenda per esempio la Cina: un Paese che ha compiuto progressi sociali straordinari in un arco di tempo brevissimo. Negli ultimi trent’anni, il Pil è aumentato di 14 volte, il tasso di mortalità infantile è stato ridotto da 42 a 7 ogni mille nati, l’aspettativa di vita si è allungata da 69 a 77 anni, il tasso di iscrizione all’università è passato dal 3% al 58% dei giovani che concludono gli studi superiori, la popolazione in miseria era pari ai due terzi del totale e oggi è appena lo 0,5%. All’impetuoso sviluppo dell’economia si è accompagnato l’accesso di massa ai consumi, così anche in quel Paese si è formata un’ampia classe media, più sana, più istruita, più benestante. Eppure in Cina il potere è in mano a un regime autoritario e illiberale. Questo vuol dire che la crescita economica e il miglioramento delle condizioni sociali non sono necessariamente correlati con un maggiore grado di libertà. Allora, a cosa serve la libertà, se una società può stare meglio anche senza essere libera?  

Insinuandosi come un tarlo nelle coscienze, questo dubbio può corrodere il basamento delle moderne democrazie liberali, vale a dire l’idea che la libertà sia l’elisir più prezioso, essenziale, indispensabile per l’emancipazione sociale, per accrescere il benessere dei singoli e far lievitare la prosperità dei popoli.  

 

In effetti, nel salto d’epoca che stiamo vivendo, sembra che il grande progetto della modernità liberale abbia cominciato a scricchiolare e che non sia più in grado di soddisfare le aspettative soggettive come in passato, rivelandosi ormai incapace di mantenere le promesse di benessere

 

In Italia, ad esempio, il Pil era cresciuto complessivamente di oltre il 76% in termini reali (al netto dell’inflazione) nel decennio degli anni ’60 del ’900, di oltre il 36% cumulato nel successivo decennio degli anni ’70, di oltre il 22% negli anni ’80, del 13% negli anni ’90; poi i tassi di crescita si erano ulteriormente ridimensionati: +1,4% nei primi dieci anni del nuovo millennio, +0,9% nel decennio pre-pandemia (2010-2019), per poi crollare nella recessione del 2020 legata all’emergenza sanitaria: -9 punti percentuali in un anno.  

Dunque, sembra che la libertà abbia perso attrattività non solo agli occhi di chi ci osserva da lontano, ma pure qualcuno dalla nostra stessa parte del mondo ha cominciato a farsi qualche domanda scomoda. L’assalto dello scorso anno a Capitol Hill – il tempio inviolabile delle moderne democrazie liberali – ne è stata una plastica riprova. 

Il baricentro del mondo si sposta dall’Atlantico al Pacifico: trent’anni fa, nel 1989, prima dell’abbattimento del muro di Berlino e della conseguente accelerazione dei processi di globalizzazione, i Paesi industrializzati producevano circa il 64% di tutta la ricchezza del pianeta (solo il 36% era riferibile ai Paesi in via di sviluppo), nel 2021 quella percentuale si è ridotta al 42%: oggi circa il 58% del Pil del mondo è realizzato dai mercati emergenti, non dalle economie avanzate. I rapporti si sono dunque capovolti. E alle nostre latitudini il progresso sociale ha iniziato la frenata, lasciando una scia di delusione, frustrazione e incertezza. Si è trasferito in altre regioni del mondo e – cosa più importante di tutte – per la prima volta si è separato dal parallelo cammino della libertà.  

Il capitalismo politico della Cina post-comunista, offerto come modello da un Paese che ha realizzato sotto i nostri occhi il più grande esperimento di progresso sociale in assenza di libertà, può esercitare una forte attrazione su potenziali emulatori sparsi per il mondo. Non a caso, anche in Europa qualcuno parla di “democrazie illiberali” come forme di governo auspicabili. E due Paesi membri dell’Unione europea, la Polonia e l’Ungheria, sono sottoposti a procedura d’infrazione per il mancato rispetto dello stato di diritto.  

C’è poi un’alternativa ancora più inquietante. Basta guardare laggiù, davanti alle bocche dei cannoni. Benché la Russia sia lo Stato con la superficie più estesa al mondo – è attraversata da 11 fusi orari – e il suo sottosuolo sia ricco di risorse naturali, di gas e di petrolio, può contare su un Pil inferiore a quello dell’Italia, meno della metà di quello della Germania: oggi la ricchezza pro-capite di un russo non raggiunge quella di un rumeno. A quel popolo non è data né la prospettiva della libertà, né il risarcimento di un benessere accresciuto. Allora non rimane che instillare nell’immaginario collettivo una narrazione ingannevole: quella del nazionalismo imperialista, l’illusione di essere eletti a un primato egemonico, dunque la legittimazione della violenza sanguinaria affinché quel supposto destino si compia. “La storia è un mattatoio”, diceva Hegel: lo constatiamo inorriditi da mesi ormai, da quando la storia si è rimessa in moto. 

Tutte queste considerazioni devono spingerci a un esercizio di profonda riflessione su ciò che non ha funzionato nel nostro modello di sviluppo degli ultimi trent’anni. A cominciare dall’indebolimento del tessuto relazionale delle comunità locali. Una questione su cui lo “spirito artigiano” ha storicamente dimostrato di poter dare un contributo determinante. Non è più solo un problema di stentata crescita del Pil, bensì di preservazione dei nostri valori fondativi, a cominciare da quello della libertà.