Dalla prima definizione di “sviluppo sostenibile” di Gro Harlem Brundtland nel 1987 “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (UN – World Commission on Environment and Development, 1987)”  al monito dell’attivista Greta Thumberg ai rappresentanti degli Stati membri dell’Assemblea delle Nazioni Unite del settembre 2019 “(…) Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte. Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza (…). Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi (…) Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no” (UN, General Assembly, 2019) i problemi ambientali, economici e sociali indotti da un modello di sviluppo non sostenibile si sono acuiti, al pari della consapevolezza pubblica e della conoscenza scientifica. Ma queste ultime non hanno favorito una significativa riduzione di processi e comportamenti alla base della crisi sistemica della società contemporanea.

Studiosi fra i più importanti e di varie discipline si sono interrogati sul da farsi e hanno proposto ricette che, nella migliore delle ipotesi, sono confluite in Agende programmatiche di sviluppo come quella del Millennio e quella dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030, quando non sono state oggetto di tesi scientifiche opposte e dell’indifferenza di decisori politici ed economici.

Molte sono le ragioni di questa empasse per la quale non si riescono a trovare soluzioni concrete ad una crisi che minaccia la stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta, oltre a quella di tante altre specie animali e vegetali sul pianeta. Fra queste, quella connessa al ruolo delle nuove generazioni profila molti elementi di interesse ad uno sguardo sociologico. Costituisce, infatti, fin dalla prima definizione della Commissione Brundtland, la componente strategica del nuovo paradigma associato all’applicazione di un nuovo modello di sviluppo: non si sarebbe dovuto più pensare alla crescita della società del presente, ma calibrare l’azione umana anche in considerazione dei suoi effetti sul futuro. Una radicale rivoluzione rispetto al modello del hic et nunc, del “prestissimo” come tempo della modernità che aveva caratterizzato una produzione industriale, un uso degli spazi urbani e incolti e una organizzazione dei tempi di vita decisamente diversa da quella dei secoli precedenti.

La definizione di sviluppo in termini “sostenibili” imponeva, però, anche una concreta rappresentazione della proiezione verso il futuro in quella generazionale, delineata come quella entità in grado di attestare i propri bisogni e di avere il connesso diritto di poterli realizzare. L’avvicendamento fra generazioni, con tutto il carico delle trasformazioni che le più giovani portavano nella società, era già stato evidente nella portata rivoluzionaria dei movimenti della fine degli Anni Sessanta, mai così dirompenti rispetto a quanto le generazioni precedenti avevano fatto, dalla crescita economica alla Guerra in Vietnam. Il riconoscimento dei diritti delle generazioni future e l’affermarsi di principi di equità e giustizia intergenerazionale da parte della Commissione delle Nazioni Unite costituiscono in tal senso un imprimatur di questi valori in una società che si stava trasformando.

 

Come mai, quindi, una giovane attivista, non a caso proveniente dalla stessa cultura “eco-friendly” nordeuropea della Presidente Brundtland, arriva dopo più di trent’anni a ricordare ai “potenti” del Pianeta che le nuove generazioni hanno un diritto riconosciuto solo formalmente a richiedere uno sviluppo davvero vicino ai bisogni loro e dei giovani del futuro?

 

Al netto di tutte le difficoltà che un nuovo stato si affermi su quello presente che si è ben consolidato, la novità di un modello di sviluppo sostenibile costituisce un radicale cambiamento della società e dello stesso modo di concepire il cambiamento, forse paragonabile solo alle grandi rivoluzioni della storia segnate dall’avvento della stampa, del modello galileiano o della stessa modernità. A cambiare, infatti, non è solo la concezione del tempo, accogliendo la dimensione futura, ma la centralità dell’azione umana rispetto a quella delle altre specie che passa ad una condizione di interdipendenza, senza trascurare che alla crescita della modernità si sostituisce un processo di sviluppo, non più lineare, fatto di molte opzioni, che possono vedere anche regressioni e che, soprattutto, vede integrarsi obiettivi economici, politici, sociali, dimensioni locali e globali, nazionali e internazionali, riferimenti passati, presenti e futuri. Si potrebbe definire un sistema complesso – e non complicato – (Morin, 1992) nel quale gran parte dei concetti, dei processi e dei metodi consolidati nei decenni sono diventati progressivamente inservibili. A partire da quello di generazione, un tempo collegato ad un gruppo di persone composto da coloro che erano nati in un certo lasso di tempo e accomunato da fasi della vita scandite puntualmente (Cavalli, 2007), ed oggi riconosciuto nei nati di periodi in una successione più breve perché caratterizzanti dall’avvento di qualche innovazione radicale –il mondo dopo l’11 Settembre, i social media, la crisi economica, la pandemia etc.

Questo per dire che la stessa definizione di “sviluppo sostenibile” sembra richiedere una risignificazione dei termini di cui si serviva e che il cambiamento che richiedeva nel 1987 oggi può avvenire solo se considerato per quello che è diventato oggi. Lo dimostra la stessa Greta Thunberg quando protesta per il mancato riconoscimento dei diritti delle nuove generazioni. Queste ultime non sono solo costituite da futuri cittadini che oggi non ancora hanno diritto di voto e sembrano contare solo per i loro consumi – per i quali possono essere un ghiotto target da influenzare.

 

Si tratta di giovani nati in un contesto sequenzialmente trasformato da tutti gli ultimi radicali cambiamenti dovuti alle crisi economiche, geopolitiche, pandemiche; dalla crescente interdipendenza dei tempi e degli spazi favorita dai social media e dagli spostamenti aerei low-cost; da un sempre più alto livello di istruzione e informazione, ma in una società complessa perché caratterizzata dall’incertezza della scienza e, più generalmente, dalla messa in discussione dell’autorità del sapere

 

Insomma, da cittadine e cittadini (la declinazione di genere attesta la crescente attenzione per la diversità sociale) che conosce ed è consapevole che uno sviluppo altro è necessario, che questo richiede le regole della sostenibilità, ma deve misurarsi con tanti ostacoli alla sua effettiva realizzazione.

La loro sfida è forse ancora più ardua di quelle sperimentate dalle precedenti generazioni di giovani. Oggi i/le giovani devono confrontarsi con un mondo di adulti che decide pur essendo la causa della condizione per la quale stanno  protestando; parlano un linguaggio diverso e arrivano fino a espressioni (come il lancio di zuppe sulle opere d’arte) che sono patentemente devianti pur di farsi sentire; ma, soprattutto, non sono adeguatamente riconosciuti fra etichette diverse per definire chi sono e quali siano i loro bisogni, al loro ruolo strategico per costruire il mondo che sarà. Perché lo sviluppo del Pianeta sia sostenibile questo deve essere costruito oggi a partire dai bisogni di chi ci sarà domani: sostenibilità è riconoscere un ruolo effettivo alle nuove generazioni.

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Foto di Markus Spiske