Papa Francesco è uno dei pochi leader capaci di andare sempre al punto. Senza giri di parole o inutili retoriche.

E così è stato anche nel recente incontro con gli artigiani che lo hanno raggiunto a Roma da tutta Italia.

Parlare di artigianato, secondo il Papa, non ha a che fare con il passato ma con il futuro: poiché a tema vi è la questione dell’umano al tempo della digitalizzazione.

È chiaro infatti che siamo alle soglie di una grande trasformazione. Che può essere per il meglio o per il peggio. Le vie del futuro non sono tracciate.

Qual è il punto sollevato dal Pontefice?

A partire dalla rivoluzione industriale – e ancora di più oggi con la digitalizzazione – si sono moltiplicati gli apparati tecnici e istituzionali che, per dirla con Bruno Latour, tendono a diventare veri e propri attanti, cioè “soggettività non umane” capaci di agentività autonoma. In questo nuovo contesto – soprattutto con l’apparizione combinata dell’ “intelligenza artificiale generativa” e del metaverso – sono le capacità intellettive, realizzative e spirituali delle singole persone, dei gruppi e delle stesse imprese a essere messe in discussione. L’AI spinge ancora più avanti la tendenza verso la riduzione della ragione a calcolo: la “governamentalità algoritmica” può comprimere gli spazi di giudizio e di azione autonoma delle persone in carne e ossa; il metaverso introduce un vero e proprio salto di livello nella capacità di realizzare nuove esperienze immersive, con un potenziale di dominio dell’immaginario infinitamente più grande rispetto ai media che hanno caratterizzato il secolo scorso (radio, cinema, Tv).

 

Non si tratta, evidentemente, di essere pro o contro la tecnologia. Non esiste un essere umano non tecnico. Ciò che si vuole ricordare è la natura ambivalente – cioè di pharmakon (veleno curativo) – della tecnica, che mentre abilita disabilita, mentre guarisce ammala, mentre salva uccide. Una ambivalenza strutturale, che non può essere risolta ma solo contenuta nei suoi esiti più problematici.

 

Il mondo nel quale stiamo entrando – sempre più veloce, grande e stimolante – abitua il cervello a spostarsi continuamente da uno stimolo a un altro. “Scrollare” diventa il nuovo stile di rapporto con la realtà, alla ricerca di uno stimolo più intenso. Stimoli che restano però frammentari e che non sono in grado di riconnettere percezioni, memorie, anticipazioni, ovvero di sostenere processi capaci di generare senso e creatività. Inoltre, si pone la questione del know-how: chi sa, la macchina o l’uomo? Esattamente la stessa questione (su scala ben maggiore) che affiorò nel momento della nascita della fabbrica: quando gli operai – che fino a poco tempo fa erano artigiani – cercarono (invano) di rivendicare – contro la nascente figura dell’ufficio tecnico – la conoscenza del mestiere e delle macchine. Da qui il grande tema dell’alienazione sollevato da Marx e che arriva fino ai giorni nostri.

Gli studi rilevano che il forte incremento dei disturbi dell’attenzione sono il prodotto della disabitudine (o della mancanza di allenamento) alla deep attention, con una diffusa incapacità di “auto-stimolazione” per mantenere l’attenzione. Così la hyper attention (un’attenzione continuamente sollecitata e frammentata) diviene una vera e propria “cura” per lo stesso veleno che rappresenta, ossia quello della disattenzione. Come se la somma di tanti brevi istanti e picchi d’attenzione sconnessi tra loro potesse colmare l’assenza di un unico, lungo sforzo. Ma come si può imparare la qualità del lavoro artigiano in queste condizioni?

L’organizzazione socio-tecnica contemporanea indebolisce la connessione tra le ritenzioni primarie (le esperienze immediate), quelle secondarie (i filtri e le aspettative che si depositano e condizionano le ritenzioni primarie successive) e quelle terziarie, incarnate in artefatti che spazializzano e frammentano il pensiero, e che sono sempre più imprescindibili per i processi di costruzione del sé e delle collettività. Né tanto meno si preoccupa di rigenerare luoghi e situazioni in cui la capacità umana del saper fare – condizione anche del saper pensare – sia coltivata e sviluppata.

In questo scenario occorrono strategie chiare per salvaguardare la capacità di fare, di creare e di pensare. Tutte componenti essenziali della libertà personale. Che non è solo un preziosissimo bene individuale. Ma anche un bene collettivo di cui non possiamo fare a meno.

 

I tanti problemi che ci troviamo ad affrontare – dalla crisi climatica al disordine geopolitico, dal crollo del desiderio dei giovani ai fondamentalismi religiosi – ci dicono che, nonostante tutta la nostra potenza tecnologica, la realtà continua a sfuggirci

 

E che la massa di dati che siamo oggi capaci di raccogliere e elaborare non riesce a cogliere ciò di cui è effettivamente fatta la vita sociale. «Lo spirito umano potrà dominare le proprie realizzazioni?» si chiedeva già nel secolo scorso Paul Valéry. Lo stato preoccupante in cui versano le società avanzate – con la polarizzazione delle posizioni, la diffusione dell’hate speech, il crollo verticale dell’esperienza religiosa, la crisi della rappresentanza politica, la fragilità dei giovani – dimostra quanto sia pertinente la domanda.

Non si tratta di discutere sui benefici o malefici del nuovo ambiente digitalizzato. Quel che sappiamo già è che accanto alle nuove opportunità – per esempio, lo sviluppo di quello che Temple Grandin chiama visual thinking – si affiancheranno nuovi problemi – come la perdita della capacità di attenzione, lo sviluppo di vere competenze professionali personali, la difficoltà di stabilizzare i significati e il senso.

 

Per contrastare gli esiti più problematici della trasformazione in corso, è necessario sviluppare e sostenere, come insegnava Marshall McLuhan, veri e propri “controambienti” in grado di sollecitare le capacità intellettive, realizzative e spirituali trascurate nell’ambiente mainstream

 

Ed è in questa cornice di senso che va ricollocata l’impresa artigiana del XXI secolo: un “controambiente” che, senza disdegnare la tecnologia, è tuttavia capace di coltivare le capacità umane – personali e di gruppo – come risorsa essenziale per dare vita a un’economia capace di accrescere la vita senza distruggere il mondo.

Senza un’educazione a “caricare” quei contenuti complessi che alimentano il “sapere umano” – processo che non si realizza nell’astrazione ma solo nella concretezza del fare creativo – il cervello non può imparare a gestire la complessità della vita nelle sue più svariate forme. Apprendimento che è peraltro essenziale per evitare la moltiplicazione degli effetti di non senso e l’ingresso in una “epoca del non-sapere”.

Senza un’educazione a sentire la realtà circostante e a nutrirsi dell’estasi della vita e dell’universo, diventa impossibile non solo assumere una postura realistica rispetto alla nostra condizione umana, ma anche diventare capaci di esercitare creatività ed empatia.

Sta agli uomini dare al mondo sociale tecnologicamente sempre più avanzato una forma adeguata. Nel quadro di una nuova visione della vita sociale che può emergere dall’alleanza dei tanti che, nonostante tutto, rimangono ancora capaci di fare e di pensare. “Se avessimo più spirito e se questo avesse più spazio e più potere effettivo nelle cose di questo mondo, il mondo avrebbe più possibilità di risanarsi, e più prontamente”, scriveva Paul Valéry.

Quello che papa Francesco ha voluto dire agli artigiani è che a salvarci non sarà la tecnica, ma l’intelligenza e lo spirito. Nella loro integralità. Intelligenza e spirito artigiani.

È questa l’ispirazione che ho tratto dalla lettura del bellissimo discorso di Papa Francesco: un’ispirazione che vorrò sempre portare con me.

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