
“Si addensa un nuovo landscape ideologico-normativo che avrà di mira nuovamente la presunta incapacità manageriale-operativa delle piccole e medie imprese italiane e mondiali, e in specie delle imprese artigiane, di affrontare le nuove procelle che si addensano – secondo i profeti ascoltatissimi del mainstream (nonostante i loro sempre più evidenti malaugurati risultati applicativi) – nei cieli dell’economia mondiale.”
Così si affermava nel numero precedente del Nostro Magazine.
L’articolo che ora qui si presenta vuol essere, in continuità con le tesi in quella sede argomentate, un contributo alla comprensione delle ragioni dell’esistenza e della resistenza creativa della piccola impresa, soprattutto quando si addensano, come oggi, condizioni di crisi ricorrente nell’economia mondiale e di frammentazione crescente dei mercati per l’intensificarsi del protezionismo selettivo da parte della nuova Presidenza USA.
“Le piccole e medie imprese (PMI) rappresentano oggi più del 95% delle imprese mondiali, forniscono il 60-70% dell’occupazione e generano una larga parte dei nuovi posti di lavoro nelle economie dei paesi dell’OCSE… Con l’avvento delle nuove tecnologie e della globalizzazione si è ridotta l’importanza delle economie di scala in molte attività, mentre si sono rafforzate le capacità potenziali delle piccole imprese.”
Così si affermava nel Policy Brief dell’OECD del febbraio 2024.
Il nuovo orizzonte di frammentazione della globalizzazione e il ritorno a una situazione dei mercati mondiali caratterizzata dal protezionismo selettivo, esaltato dalla nuova Presidenza Trump, ma già in vigore da molti decenni sotto la forma di dumping fiscale e norme tecniche di esclusione, come dimostra – del resto – la mai abbastanza sottolineata sostanziale neutralizzazione operata proprio dagli USA del WTO già decenni orsono, non farà che confermare la capacità di adattamento e resistenza delle imprese artigiane.
Tanto più se esse, come ha giustamente recentemente affermato la professoressa Sara Arnella, impareranno a usare sempre meglio il diritto doganale come strumento essenziale per limitare i danni daziari e volgerli per certi versi in guisa di vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti – grandi e piccoli – meno capaci.
Quale che sia la configurazione dei mercati mondiali, una delle questioni storiche più rilevanti del problema dello sviluppo dell’impresa nel mondo moderno rimarrà la grande varietà dei confini dell’impresa medesima.
E questo perché il meccanismo del mercato mondiale è costituito in prima istanza non dalle regole statali, protezionistiche o no, ma dalle filiere d’imprese che si incrociano negli scambi di merci e di capitali, come ci ha insegnato irreversibilmente Paul Krugman nei Suoi lavori che gli hanno fatto meritare nel 2008 il Premio Nobel per l’Economia.
Del resto, seguendo il Suo insegnamento, occorre ricordare, per non fasciarsi la testa prima di rompersela, che il protezionismo non conduce inevitabilmente alle recessioni. E questo perché, in una guerra commerciale mondiale, poiché le esportazioni e le importazioni diminuiranno in modo eguale in tutto il mondo, l’effetto negativo di un calo delle esportazioni sarà sempre compensato dall’effetto espansivo di un calo delle importazioni.
È questo meccanismo mondiale in cui siamo immersi che occorre comprendere. Meccanismo in cui operano, interagendo profondamente con esso, imprese non solo di diversa natura proprietaria e tecnologica, ma, in primo luogo, di diversa dimensione, di diversa scala: grandi, medie e piccole.
Tale situazione comprova che la crescita del soggetto storico “impresa artigiana” non è determinata da una e una sola legge evolutiva, iscritta nei meccanismi della divisione sociale del lavoro, ma dalle capacità di inserirsi nelle trasformazioni del mercato mondiale. Per una Nazione – come l’Italia – a lunga tradizione di mercati aperti, questo è un fattore distintivo fondamentale, che, se viene a perdere di intensità, deve trovare, come generalmente è accaduto nella sua storia, una compensazione nell’ampliamento del mercato interno e nella sostituzione delle importazioni.
L’esistenza della piccola impresa è l’elemento che più di ogni altro ha alimentato la riflessione e l’analisi teorica ed empirica, non solo economica, ma anche sociologica, antropologica e, per taluni versi, storica, negli anni più recenti.
È al finire del XX secolo e nei primi decenni del nuovo, che è apparso evidente che erano e sono in azione potenti forze storiche che contraddicono quella che si pensava fosse una sorta di totalitaria concentrazione del tessuto economico nelle grandi imprese.
Tale concentrazione si realizzava sì nei settori tecnologici più evoluti e dinamici rispetto alla creazione di nuovi paradigmi innovativi, ma anche contestualmente alla crescita incessante di nuove imprese piccole e medie in molti dei settori industriali e dei servizi, caratterizzati in primo luogo da cambiamenti tecnici e adattivi delle già avvenute rivoluzioni tecnologiche.
Soprattutto nell’industria informatica e nei servizi ad alto gradiente di risorse specializzate e idiosincratiche (ossia specializzate e non facilmente imitabili), si assisteva al proliferare di piccole e medie imprese in filiere tecnologiche paradigmaticamente rivoluzionarie. E oggi si fa un gran parlare di intelligenza artificiale…
La piccola impresa artigiana si presenta storicamente come un concentrato sociale di fattori di sostituzione dei prerequisiti classici della crescita capitalistica otto-novecentesca (grandi banche e grandi imprese, Stato) ed è un grande processo di mobilitazione sociale di classi un tempo subalterne sui mercati e nei reticoli del potere, per comprendere il quale appare decisivo, in tutto il mondo, analizzare attentamente, soprattutto ma non solo, il passato agrario e migratorio delle società da cui tale fenomeno promana.
Ma non vi è solo questo. La piccola impresa raggiunge livelli prima inusitati di crescita proprio nei nostri tempi presenti, quando si compie quella grande rivoluzione silenziosa mondiale che è l’ampliamento dei consumi e l’affinamento della qualità degli orientamenti del consumatore non soddisfatto dai soli prodotti della grande impresa.
La piccola impresa ha sempre adottato, in tutta la sua ormai lunga storia, un comportamento che enfatizza una produzione altamente differenziata e di nicchia, che consente una grande flessibilità e un rapido adattamento alle congiunture dei mercati, che oggi troverà nuove conferme.
Di qui la grande importanza dei sistemi educativi e dei valori formativi che ne costituiscono la linfa vitale. Ecco la vera sfida che ci attende e a cui rischiamo sempre di rispondere troppo tardi…
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Giulio Sapelli
Giulio Sapelli, già Professore ordinario all’Università degli Studi di Milano ed editorialista, unisce economia, storia, filosofia, sociologia e cultura umanista in una sintesi originale e profonda. Ha insegnato in Europa e nelle Università delle due Americhe, in Australia e Nuova Zelanda. I suoi lavori sono stati tradotti in tutto il mondo.
E’ Presidente della Fondazione Germozzi ed è impegnato a valorizzare il concetto di Valore artigiano, che è forza di popolo, di persone e di imprese legate da uno spirito unico, il quale esprime la vocazione originaria incline alla creatività e all’amore per la bellezza.