Non può certo dirsi che viviamo in un momento storico privo di complicazioni. Il contesto generale vede ormai cresciuto enormemente il livello della complessità e sono diversi i fattori che si intersecano tra loro, costringendoci ad assumere un atteggiamento di continua e perdurante adattabilità alla mutevolezza.

Eppure, osservando il deterioramento sempre più evidente dell’ecosistema, non possiamo non renderci conto di quanto sia necessario ragionare di rivoluzione dei tradizionali assetti dell’economia e della produzione, raccogliendo al contempo le grandi opportunità offerte dalla ormai inarrestabile innovazione tecnologica, soprattutto con riferimento all’area del digitale e, in prospettiva, dell’Intelligenza Artificiale, in procinto di diventare un fattore condizionante dei molti aspetti dell’agire umano.

Accanto a questo, viviamo una stagione di destabilizzazione del “vecchio” ordine mondiale, con il perdurante atteggiamento delle economie egemoni di esercitare un controllo globale, probabilmente inconsapevoli che la dimensione fluida dell’essere impedisce a chiunque di immaginare una stabilizzazione permanente del quadro geopolitico, così come l’abbiamo immaginato e praticato nel secolo scorso, dando fiato a ritrovati populismi dietro ai quali si nasconde quasi sempre un atteggiamento conservatore generato dal timore del cambiamento.

In tutto questo, in Europa sembriamo tutti un po’ “provinciali” e continuiamo ad inseguire l’idea che ciò che si gioca sul piano globale, il vecchio continente possa giocarselo anche a casa sua, cercando di costruire l’equilibrio del mercato interno sulla base della egemonia di interessi particolari, piuttosto che su una comune politica economica. Pensavamo che il COVID, prima, e il conflitto Russo/Ucraino, poi, ci togliessero per sempre i paraocchi e ci consentissero di recuperare quello spirito europeo che usciva, in modo molto pragmatico, dal conflitto mondiale, quando si inseguiva l’utopia di una pace duratura mettendo a fattor comune carbone ed acciaio, e ci ritroviamo a fare nuovamente i conti con la visione “euro-tecnica” convinta di fare economia con le regole, invece che con le politiche di accompagnamento.

 

“Avevamo immaginato che il Next Generation EU o il REPowerEU potesse proiettarci in una nuova dimensione continentale, orientata a ragionare in termini di sostegno al mercato, e ci ritroviamo a discutere della quantità di automatismi da mettere nel patto di stabilità”

 

Insomma, avevamo immaginato che il Next Generation EU o il REPowerEU potesse proiettarci in una nuova dimensione continentale, orientata a ragionare in termini di sostegno al mercato, e ci ritroviamo a discutere della quantità di automatismi da mettere nel patto di stabilità.

Il risultato è che rischiamo di perdere la scommessa della doppia transizione, per ritrovarci a fare i conti con i parametri ESG che stanno velocemente soppiantando quelli di Basilea! Costretti a star dentro agli “indicatori”, ci stiamo mettendo da soli in una gabbia!

Eppure, dovrebbe esser chiaro a tutti che si sta dentro la complessità fluida del mondo soltanto se si concepiscono strumenti altrettanto fluidi e flessibili, veloci da mettere in campo e da modificare: lo abbiamo sperimentato noi direttamente con il PNRR, invecchiato soltanto qualche mese dopo l’essere stato concepito, perché non avevamo fatto i conti con quello che sarebbe successo (e che non potevamo ragionevolmente prevedere).

 

“In questo contesto, il sistema delle micro e piccole imprese rischia di soffrire più di altri”

 

In questo contesto, il sistema delle micro e piccole imprese – di cui non ci si stanca mai di dire che sono la spina dorsale di qualsiasi economia – rischia di soffrire più di altri, messo nella condizione di non poter svolgere tutto il suo potenziale di creatività e adattabilità, ma costretto ad inseguire i molteplici “presidi funzionali” pensati dalla tecnocrazia.  Se non si comprende questo, si perde la grande occasione di immaginare la futura economia mettendo finalmente al centro dell’attenzione l’impresa diffusa di territorio, quale modello generale di impresa, cercando di immaginare la “sostenibilità” soprattutto come dato di resilienza economica, piuttosto che di “adattamento metrico” ai cambiamenti climatici.

Questo non vuol certamente dire sposare la tecnica dell’opossum, invocando una gradualità di azione che derubrica gli obiettivi tra le “varie ed eventuali”, ma avere la capacità di accompagnare l’economia con interventi di sostegno, piuttosto che con le regole, per fare in modo che la “sostenibilità” generata dalla contingenza si tramuti nell’effettiva possibilità di adattamento al cambiamento: in questo, il sistema dell’impresa diffusa e della piccola impresa ha certamente maggiori chance dell’industria, potendo incorporare nelle sue strategie di posizionamento anche valori che non appartengo soltanto all’economia, ma anche e soprattutto alla vita delle comunità, realizzando una convergenza di interessi ed obiettivi che potrebbe veramente consentire al vecchio continente di giocare un suo ruolo protagonista nel mondo che verrà.

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