Nei racconti mitologici delle differenti civiltà umane, l’uomo è stato creato da un’entità divina diversa secondo ciascuna tradizione culturale e religiosa. Ma in una cosa concordano praticamente tutti quei miti: l’artefice divino ha creato l’uomo plasmando la materia in dissimili maniere, che fosse creta, pietra o altro elemento, a cui avrebbe in seguito insufflato la vita. Ecco perché l’azione manuale degli uomini nel forgiare i diversi materiali ha da allora una sorta di qualità che sfiora il divino. Forse per questo il termine che connota il lavoro delle mani umane si chiama, appunto, creatività.

Il lavoro manuale degli uomini non si è limitato alla fabbricazione di oggetti semplicemente utili ma ha inseguito anche una sorta di rappresentazione seducente dei manufatti, quale conseguenza del variare dei valori estetici lungo la storia umana, lasciando che l’evoluzione culturale, sviluppatasi lungo la storia, modificasse e imprimesse ai prodotti la caratteristica peculiare della bellezza.

La bellezza appunto: quella sorta d’aspetto attraente dei prodotti artigianali che sorprende ogni volta lo sguardo di chi li osserva, dando l’impressione che la loro forma corrisponda a qualcosa di inedito e che migliora o, talvolta, sfida la condizione naturale del fascino degli elementi naturali.

Così, infatti, si esprime Cennino Cennini (XIV-XV sec.) nell’incipit del suo Libro dell’arte, quando afferma che l’umana attività creativa, da Adamo in poi, ha permesso agli artigiani, e quindi agli artisti, di formare qualcosa di straordinario, di inconsueto e di meraviglioso, realizzando ogni volta quello che prima del loro lavoro non esisteva:

 

«Iddio si crucciò in verso di Adam e si ‘l fè dall’agnolo cacciare, lui e la sua compagnia, fuor del Paradiso dicendo loro:…per vostre fatiche et esercitii vostra vita trasporterete”. Onde conoscendo Adam il difetto per lui commesso, ma sendo dotato da Dio sì nobilmente sì come radice, principio e padre di tutti noi, rinvenne di sua scienza era di bisogno di trovar modo di vivere manualmente. […] Poscia [egli] seguitò molte arti [per le quali] conviene avere fantasia et operazione di mano, trattandosi di cose non vedute, cacciantesi sotto ombra di naturali e fermarle con la mano, dando a dimostrare che quello che non è, sia!».

 

Questo testo ha visto la luce in quella stagione stupefacente che abbiamo chiamato Rinascimento e che è sgorgato in Italia, dando al nostro paese quel connotato di attrazione estetica che ha accompagnato fino ad oggi l’aspetto armonioso dei manufatti prodotti in Italia, fino a meritarsi l’odierna lusinghiera considerazione di quanto è «Made in Italy». Una considerazione di bellezza formale ed estetica che tutto il mondo riconosce ai nostri manufatti.

Tutto è cominciato con il lavoro che si svolgeva nelle botteghe italiane di quel tempo straordinario, quando l’abilità manuale degli artefici era accompagnata da un bagaglio culturale che stimolava di continuo l’innovazione, sospinta da quella benefica irrequietezza intellettuale che costringeva sempre al miglioramento, non solo estetico, di ogni manufatto.  A questo proposito bisogna sapere che in quelle botteghe non si insegnava solo il mestiere, ma l’esperienza artigiana era accompagnata dallo studio di diverse materie, quali la geometria e il far di conto (abaco), e poi la mitologia, la storia sacra, la letteratura, l’anatomia, una chimica elementare, la scienza dei materiali ed altro ancora, come lo studio dei fenomeni naturali, per carpirne il loro mutevole aspetto in maniera da poterli rappresentare ogni volta che ne fosse richiesto, vuoi sui dipinti, ma anche sugli arredi d’ogni genere.

Bisogna infatti sapere che in quelle botteghe non si producevano solamente opere d’arte figurativa, ma bensì anche prodotti per la vita d’ogni giorno, quali i cassoni nuziali, i deschi da parto, le predelle d’altare, le insegne dei negozi, le suppellettili per le abitazioni, le decorazioni dei tessuti, i candelabri per la chiesa ed altro ancora, tra cui eccellevano i prodotti d’oreficeria. Di quest’ultima attività ne abbiamo l’esempio più persuasivo con quel superbo scultore che fu Benvenuto Cellini (autore del celeberrimo Perseo in piazza Signoria a Firenze) che realizzò la famosissima saliera per Francesco I, re di Francia, in ebano, oro e smalto. Od ancora lo scultore Lorenzo Ghiberti (autore delle straordinarie Porte del Paradiso del Battistero di Firenze) che realizzò il fermaglio per il piviale e la mitria d’oro per il pontefice Martino V. Od ancora il Globo crucifero (una palla di rame dorato di 2 tonnellate che sormonta la cupola di Santa Maria del Fiore) realizzato nella bottega del Verrocchio (sommo scultore e pittore fiorentino) perché la sua impresa scultorea prevedeva, ovviamente, la presenza di una fonderia.

Tutta questa bellezza, presente anche nelle opere di stretto artigianato, era garantita perché la formazione dei fanciulli in bottega era accompagnata da un intenso bagaglio culturale. Era questo un programma decisivo per la formazione dei giovani artefici italiani, sospinto dai programmi della classe dirigente di quel tempo, per la quale la cultura e la sua promozione erano un proposito indispensabile. Basti pensare all’istituzione delle biblioteche pubbliche come quella Laurenziana a Firenze, od anche a Siena con la Biblioteca Piccolomini, addirittura collocata nel Duomo di quella città in maniera che il sapere fosse a disposizione di tutti. Ci piace immaginare che in quella biblioteca senese si siano recati, per consultazioni d’ogni genere, anche sommi artisti, che in quella chiesa hanno lavorato, quali Michelangelo, Donatello e il giovane Raffaello che collaborava con Pinturicchio per la decorazione delle pareti proprio di quella biblioteca.

Nell’artigianato, l’intreccio tra la trasmissione della tradizione manufatturiera con elementi culturali, anche d’argomenti non strettamente inerenti alla lavorazione dei prodotti, crea una spinta irresistibile verso l’innovazione, che non si limita al solo incremento estetico. Infatti, spesso si creano anche ricadute su procedure e forme, e quindi prodotti, davvero sorprendenti. Così, infatti, recita parte dell’epitaffio di Carlo Marsuppini (1398-1453), umanista e cancelliere della Repubblica Fiorentina, per la tomba di Filippo Brunelleschi, il sommo architetto della celeberrima cupola di Santa Maria del Fiore:

 

«…quanto Filippo architetto abbia avuto prestigio nell’arte di Dedalo possono testimoniarlo, non solo la straordinaria cupola di questa famosissima chiesa, ma anche le molte macchine da lui ideate con divino ingegno…».

 

Brunelleschi si forma in una bottega d’orafo. Prosegue la sua attività come scultore e quindi studia i testi antichi: a lui si deve infatti la riscoperta della prospettiva lineare centrica. Quando poi intraprende l’attività di architetto non si accontenta di quanto ha studiato a Roma sulle rovine antiche, ma la sua curiosità si spinge anche all’innovazione degli strumenti necessari per la costruzione degli edifici. L’esempio più persuasivo sta nell’ideazione di un argano per il sollevamento dei materiali che Brunelleschi inventa attraverso un sistema che potremmo definire come la frizione d’un’automobile contemporanea. Egli, infatti, adotta un sistema per la rotazione dell’argano per sollevare i pesi che, col suo espediente meccanico, avrebbe permesso di non togliere mai il giogo al bue che lo ruotava in maniera che potesse girare sempre nel medesimo senso. Ci piace sospettare che questa invenzione non fosse frutto esclusivo dell’ingegno di Brunelleschi ma, invece, fosse il prodotto di suoi studi condotti su trattati di antiche tecniche di sollevamento dei pesi di autori matematici alessandrini risalenti al IV secolo, presenti nelle collezioni librarie della famiglia Medici.

A questo proposito occorre ricordare come, a Firenze, un’intelligente politica di investimento culturale abbia contribuito al progresso e alle innovazioni di quella città, con conseguenze che si rifletteranno sull’intera Europa. Uno dei contributi a questo sviluppo erano le istruzioni che la classe dirigente, come quella della famiglia dei Medici, impartiva ai collaboratori. Infatti, i responsabili dei banchi medicei, nelle varie località europee e mediterranee, non avevano solo l’incombenza di condurre con profitto le loro filiali per quanto concerneva l’attività commerciale e finanziaria. Alla responsabilità della conduzione dei banchi, da Bruges ad Alessandria, d’Egitto, da Avignone a Famagosta e così via, si aggiungeva anche quello di reperire ogni documento, trattato, opera letteraria, filosofica o scientifica riguardante ogni ambito del sapere che in quei luoghi si era sviluppato, antico o contemporaneo che fosse. Tutto questo materiale doveva poi pervenire a Firenze e costituirà il nucleo di quella che diverrà la Biblioteca Laurenziana. Una collezione che andava da testi letterari, filosofici (la raccolta completa dei Dialoghi platonici) e storici (Tacito, Plinio, Eschilo, Sofocle, Quintiliano, Virgilio) e comprendeva anche trattati di scienza meccanica e matematica (Pappo d’Alessandria), oltre a testi giuridici (Corpus Iuris di Giustiniano) fino a testi di musica. È questo l’ambito in cui si espressero le migliori intelligenze umanistiche: Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Niccolò Niccoli, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Con la Biblioteca il sapere e la conoscenza erano a disposizione di tutta la comunità fiorentina. E gli umanisti erano partner degli artefici nella scelta degli elementi e della configurazione delle opere. Insomma, il manufatto, che fosse un’opera di pittura o d’altro, era il frutto della collaborazione tra eruditi e artigiani.

Con la biblioteca pubblica la conoscenza si schiudeva, uscendo dal chiuso dei conventi e dei monasteri, per aprirsi alla città. Uno dei risultati fu che circa l’85% dei fiorentini sapeva almeno leggere e scrivere, contro il solo cinque per cento nel resto d’Europa. Possiamo allora capire quale concentrazione di elementi culturali e di raffinate competenze abbia nutrito quel fecondo terreno dal quale altro non poteva fiorire se non quel frutto straordinario d’arte, cultura e bellezza in quella piccola città come allora era Firenze, e, di riflesso, nelle altre “capitali” italiane: Mantova, Venezia, Milano, Roma e così via.

Questa caratteristica dell’apertura culturale degli artigiani italiani, nata nel Rinascimento, è una caratteristica che ha saputo, qualche secolo dopo, sfidare la prepotenza della rivoluzione industriale che, con la sua serialità, parrebbe aver inaridito le mani che modellano le forme dei prodotti e della loro decorazione. La produzione industriale, infatti, necessita di forme elementari che agevolino la serialità produttiva delle macchine, rischiando l’aridità estetica dei prodotti.

Ma qui da noi, quella sorgente di bellezza, nata in quelle nostre botteghe del Rinascimento, non ha mai smesso di fecondare la nostra artigianalità e quindi anche l’industria: basti pensare a come il nostro design abbia convinto gli industriali dell’automobile, dell’arredamento, dell’architettura, delle suppellettili e così via, ad avvalersi di quella progettualità e quella sensibilità estetica che oggi viene riconosciuta con l’espressione Made in Italy. Qui in Italia, dove la fonte della storica rinascenza culturale e l’apertura ad ogni sapere pare aver avuto inizio e ci ha resi storicamente unici. Uno spirito artigiano che ancora non smette d’esse fecondo.

Un passaggio di testimone di quella primigenia attività divina che ha portato gli uomini a plasmare la materia, inseguendo quelle infinite storie racchiuse negli elementi naturali, alla ricerca di quella verità che ha il preziosissimo privilegio di non esser data una volta per tutte, ma di mostrarsi nella “infinibile” mutevolezza che le dita dell’artigiano sanno inseguire.

Quest’è un’attività che chiede esperienza, memoria, apertura culturale e gesto: tracce sicure della presenza in chi ha, nella sua integrità umana, la fonte dell’attenta osservazione del mondo. Di chi ha con la materia quel rapporto d’amore come quello di chi, tenace e irriducibile, lo considera ancora fatto di pensiero, di gesti e di tatto, come di chi ha nel senso nascosto della materia la fonte del proprio livello estetico che talvolta arriva ad accarezzare la poesia. Come colui che si rivolge alle cose non solo chiedendo loro cosa servano, ma chiedendo loro cosa siano e, quindi, come appaiono.

E di tutto questo fa la ragione e il sentimento del proprio segno, per restituirci quello splendido spettacolo del prodotto artigiano risultato di quel colto dialogo tra disegno, modellazione e progettazione, quali elementi dall’inesauribile facondia.

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