La questione salariale, ritornata nel dibattito a seguito dell’escalation dell’inflazione e dell’accordo politico raggiunto questa settimana sulla proposta di direttiva sul salario minimo della Commissione europea, mette al centro alcuni dei valori chiave della bilateralità.

La criticità del caso italiano viene stilizzato dall’evidenza proposta dall’Ocse, dalla quale emerge la stagnazione di lungo periodo del salario in Italia rispetto agli altri maggiori paesi europei e alle economie avanzate. L’esame dei dati di Eurostat mostra un quadro maggiormente evolutivo delle retribuzioni, pur confermando il minore dinamismo di quelle italiane.

Una prima osservazione da fare riguarda la misurazione del compenso del lavoro. Nel corso degli ultimi anni, alle retribuzioni dei lavoratori si sono affiancate prestazioni di welfare aziendale: secondo il Welfare Index PMI la quota di imprese che le erogano con livello medio e medio-alto è passato dal 50,7% del 2016 al 64,2% del 2021, con un aumento di 13,5 punti in cinque anni.

Per l’erogazione di queste prestazioni nelle micro e piccole imprese diventano essenziali due fattori: la contrattazione e la presenza diffusa degli enti bilaterali. La bilateralità rappresenta una fonte primaria degli interventi che integrano la retribuzione monetaria, i quali, nella quasi totalità, sfuggono alle rilevazioni statistiche.

Una delle cause della bassa dinamica dei salari in Italia è rappresentata dalla stagnazione della produttività, un fenomeno che negli ultimi anni si è concentrato nei servizi.

Nella manifattura, l’esposizione alla concorrenza internazionale ha determinato un marcato efficientamento dei processi aziendali mentre nell’edilizia, con la forte selezione avvenuta nei due cicli recessivi della grande crisi (2008-2009) e della crisi del debito sovrano (2011-2012), sono rimaste sul mercato le imprese più produttive.

Gli interventi della bilateralità si estendono al sostegno degli investimenti, anche in marketing e comunicazione, e alla formazione, con benefici su innovazione e produttività. Vi è una ampia letteratura, corroborata da evidenze empiriche, che delinea una significativa correlazione tra investimenti in formazione e propensione ad innovare delle imprese. Dai processi di innovazione e dalla presenza su nuovi mercati – in Italia e all’estero – consegue un miglioramento della produttività, condizione necessaria per una crescita di salari e stipendi. L’analisi dei dati Istat sull’attività internazionale delle imprese mette in evidenza che il costo del lavoro dei lavoratori occupati in micro e piccole imprese esportatrici, a fronte di una maggiore produttività, è di un terzo superiore a quello delle imprese esclusivamente rivolte al mercato interno.

Inoltre, gli interventi degli enti bilaterali per la conciliazione favoriscono l’offerta di lavoro delle donne. Nel 2021, lo ricordiamo, sono 791 mila le donne under 35 che non studiano e non cercano lavoro, contribuendo a collocare l’Italia al penultimo posto tra i 27 paesi dell’Unione europea per tasso di occupazione femminile.

L’evoluzione degli interventi della bilateralità poggia su una buona contrattazione, opportunamente differenziata per cogliere le peculiarità del variegato sistema produttivo italiano, ma senza dispersioni. In un contesto caratterizzato dal fenomeno dell’ ‘iperinflazione contrattuale’ – a fine 2021 nell’archivio del Cnel sono registrati 992 contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) vigenti, con un aumento del 23,5% in cinque anni –  i 161 contratti siglati dalle maggiori confederazioni sindacali dei lavoratori riguardano 12,5 milioni di lavoratori, pari al 97,0% dei 12,9 milioni di lavoratori dei 433 CCNL per cui si dispongono informazioni sui firmatari. Tali evidenze confermano il principio, sostenuto da Confartigianato, secondo il quale la determinazione del salario deve continuare ad essere affrontata dalla contrattazione collettiva.

Concludiamo citando l’allarme emerso nei giorni scorsi sui dati dell’Istat sul mercato del lavoro riguardante la stagnazione, ad aprile, dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato e la crescita di quello a tempo determinato. L’utilizzo di contratti a termine è un fenomeno più diffuso in fasi incerte del ciclo economico, come quella attuale, caratterizzata dal rallentamento della ripresa, dalla pressione crescente dei costi delle commodities e dagli effetti del prolungato conflitto in Ucraina. Va ricordato che rispetto a febbraio 2020, prima dello scoppio della pandemia, gli occupati dipendenti a tempo determinato sono saliti di 221 mila unità, quelli dipendenti a tempo indeterminato di 25 mila unità, mentre gli effetti recessivi si sono scaricati tutti sul lavoro indipendente, che registra 247 mila occupati in meno. Sul sostegno della domanda di lavoro, in particolare di quello stabile, le micro e piccole imprese sono le protagoniste, come emerge dall’analisi dei dati contenuti nella nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione predisposta da Istat, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Inps, Inail e Anpal: nelle imprese con meno di 50 addetti, in cui lavora il 49,2% dei dipendenti, sono 464 mila le posizioni lavorative create nel 2021, pari ai due terzi (67,1%) del totale; la quota delle micro e piccole imprese sale all’81,4% per le posizioni a tempo indeterminato. I caratteri dello spirito artigiano che qualificano il legame di collaborazione, interpersonale, tra imprenditore e dipendente, si concretizzano, anche in una fase di incertezza, in un maggiore diffusione di rapporti di lavoro stabile.