La città «per come noi la immaginiamo, come luogo in cui si sviluppa e si snoda la vita, deve ruotare attorno alle imprese artigiane. Centro cittadino e artigianato sono un binomio inscindibile». Tra le tante qualità che possiede, Gabriele Tagliaventi – architetto, urbanista di vaglia esponente del New Urbanism e docente ordinario dell’Università degli Studi di Ferrara – ha senz’altro quella del riuscire a disegnare spazi ideali attraverso le parole. Ogni sillaba è cucita con cura fino a costruire un discorso. Lineare, preciso, ordinato. Nella sua intervista a Spirito Artigiano, Tagliaventi declina la «centralità degli artigiani» nella concezione urbanistica Occidentale. Un excursus tra storia, economia e «presidio di libertà».

 

Professor Tagliaventi, lei concepisce la presenza delle imprese artigiane come elemento fondamentale dei centri urbani. Sappiamo tuttavia che spesso le imprese artigiane si trovano altrove e sempre meno in zone centrali. È un errore decentrarle?

“Alcune imprese artigiane, per dimensioni, hanno necessità di essere decentrate. Ma, in linea di principio, l’artigianato è centrale. È stato, storicamente in Occidente, l’elemento attorno al quale le città sono nate e si sono sviluppate. Si pensi alle botteghe rinascimentali da cui derivano tante professioni che si sono tramandate fino ai giorni nostri. Le imprese artigiane sono il fulcro della città: i centri devono essere vivi, luoghi in cui si produce. Da ultimo, gli artigiani rappresentano un grande e imprescindibile presidio di libertà.

Perché, al netto delle ragioni dimensionali, si è arrivati a questo progressivo decentramento delle imprese?

“Negli anni ’80 le leggi urbanistiche adottate a vari livelli hanno suddiviso le città in “zone” perseguendo la cosiddetta “zonizzazione”. Una visione che ha così creato porzioni di città adibite a diverse “funzioni”: zona residenziale, zona per lo sport, zona per le imprese e così via. Nulla di più sbagliato. I contraccolpi di queste decisioni scellerate, in particolar modo per l’artigianato, sono stati nefasti”.

Quale obiettivo, per lo meno idealmente, si voleva ottenere?

“Si è trattato per lo più di un approccio ideologico che ha distrutto i legami tra le città e le comunità. La vittima è stato proprio il sistema delle imprese artigiane. Se togli in particolare al piccolo artigiano la clientela di “prossimità”, gli crei un danno irreparabile. E così, via via, le saracinesche degli artigiani nei centri storici – un elemento fortemente identitario, blasone di storia e di orgoglio della nostra manifattura – hanno chiuso, cedendo il passo a vetrine impersonali e omologate. Alla base di questa metodologia di pianificazione urbanistica c’era l’idea di distruggere il vecchio sistema borghese, sostituendolo con uno astratto che ha impoverito e depauperato le città. Oltre che molte imprese, evidentemente”.

Esiste un modo per invertire questa tendenza?

“Certo. Gli strumenti urbanistici, in quanto tali, possono avere un effetto anche benefico per le aziende artigiane ma più in generale per la città globalmente intesa. Già alcuni esempi li stiamo vedendo. E il reintegro dell’artigianato nelle città sta progressivamente tornando a essere una priorità in questo senso. In America – al posto dei grandi supermercati ormai divenuti cattedrali nel deserto – si sta tornando a privilegiare l’attività di vicinato inserita nel contesto urbano”.

È un modello che secondo lei può trovare terreno fertile anche in Europa?

“Il concetto di prossimità ha a che fare anche con l’impatto ambientale, si evita di muovere l’auto e si acquista nella bottega artigiana sotto casa; ha un impatto sociale, si evitano centri storici bui e vuoti, e ha un impatto economico, rivitalizza una comunità. Tanti piccoli artigiani significano equità sociale. Sono le botteghe artigiane il vero veicolo di libertà e un modello di riscatto sociale che ha dimostrato nei fatti di aver funzionato. L’Italia del Dopoguerra, quella che ha ricostruito il Paese, è nata nelle botteghe artigiane. Per cui secondo me non solo questo modello deve trovare terreno fertile, ma deve essere sostenuto convintamente anche dai decisori politici. Alcuni tiepidi segnali incoraggianti, arrivano da alcuni grandi città europee nelle quali sempre di più si trovano artigiani nei centri storici che forniscono servizi di prossimità ai cittadini”.

Questa visione non rischia di essere “passatista”?

“No. Tornare al modello della città degli anni ’60 è un’esigenza non più procrastinabile. L’apporto degli artigiani al patrimonio urbano è formidabile. Senza di loro, le città muoiono. Non solo. Senza artigiani, si mette in discussione l’identità stessa della città”.

 

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