I fattori della sostenibilità delle attività umane sono da tempo al centro della attenzione e delle preoccupazioni delle pubbliche opinioni internazionali, per il tangibile deterioramento delle condizioni climatiche e ambientali, a tutti i paralleli, che incide direttamente sulla qualità e anche sulla praticabilità della vita di miliardi di persone.
Il tema, al di là di approcci ideologici che non fanno bene a nessuno, in entrambi gli estremi, è ineludibile e interroga anche le nostre imprese e le nostre persone su quale contributo occorra mettere in campo per contribuire alla sostenibilità (direi, meglio, alla esistenza) di un futuro per questa e le prossime generazioni.

La risposta è stata schematizzata in un semplice acronimo: ESG. Con esso si misura il grado di compatibilità ambientale (Environmental), Sociale (Social) e di  visione strategica (Governance) di una attività economica produttiva organizzata: insomma, quella che noi, semplicemente, chiamiamo impresa.  La sua relativa conformità (o meno) la accredita (o la scredita) come entità affidabile per i consumatori e la società in generale.

ESG si riferisce, dunque, a un insieme di criteri ambientali, sociali e di governance che sono integrati nella strategia aziendale delle imprese e che vengono anche presi in considerazione dai detentori di capitali finanziari quando vogliono (o devono) effettuare investimenti sostenibili.

La loro implementazione in una organizzazione produttiva diverrà, nei prossimi mesi e anni, sempre più cogente per le imprese, pena la loro graduale esclusione dal mercato, dalle filiere di produzione e dal gradimento stesso dei consumatori. È quindi un tema di competitività, che richiede un profondo cambiamento di mentalità e di modello aziendale ma che risponde alla visione secondo cui l’impatto globale prodotto dall’azienda è non solo importante, ma essenziale per la sua stessa sopravvivenza.

Per capire l’importanza economica globale di questo concetto, comprendere che non è elitario e non riguarda solo le ricche opinioni pubbliche occidentali, basta pensare al progetto “The Line”. 500 miliardi di dollari investiti in Saudi Arabia per creare una città lunga 170 km, da Tabuck al Mar Rosso, larga 200 metri, alta 500 metri, capace di ospitare 9 milioni di persone con tutte le loro esigenze e le loro attività di servizio e produttive, con un complessivo impatto zero sull’ambiente circostante.
Non è un progetto, è una realizzazione in corso, completata già al 20%.

 

Sarà quindi sempre più necessario – anche per le imprese di ogni genere e tipo, specie se appartengono a filiere produttive o di servizio – adottare politiche e strategie nuove.  Non solo strategie innovative, ma strategie vincenti. Siamo dunque a un cambio di paradigma

 

Su tutti i social francesi circola da qualche settimana un commento:  “Il ne manquait pas grand chose pour gagner l’Eurovision”. Faccio questo esempio ancora per semplificare.
Cos’è mancato alla Francia per vincere l’Eurovision Song Contest? La qualità della canzone o della voce? Lo spettacolo? No. È mancata la strategia vincente.
Le scelte strategiche devono essere sempre finalizzate al successo. Se le sbagli, perdi. Nel caso in questione la canzone era bellissima, ma la presentazione era vecchia, non all’altezza dei gusti delle nuove generazioni.

Le nuove strategie aziendali dovranno  avere, pertanto, un impatto vincente, accettabile, come nella musica, dalle nuove generazioni, su una triplice dimensione. Ambientale, che comprende tutte le azioni che hanno una incidenza positiva sull’ambiente che la circonda. Sociale, cioè che misura l’impatto della attività d’impresa sulla società stessa di cui essa fa parte: stiamo parlando, dunque, di quell’aspetto che incide sulla qualità della vita, la giustizia, l’equità, la libertà, l’affrancamento dalla povertà e così avanti. Buona governance: le azioni relative alla cultura aziendale, alla onestà e trasparenza della gestione, ai rapporti con gli altri gruppi di interesse, alla realizzazione del bene comune. Il principio di buon governo  è un concetto etico e che misura la scelte e la vision dell’imprenditore. A esso consegue la capacità di dire dei “si” giusti e dei “no” giusti, secondo un codice morale che anche noi abbiamo nelle premesse del nostro Statuto (che è ciò che ci tiene insieme, peraltro).

 

C’è un famoso affresco del Lorenzetti, Il Buon Governo, conservato nel Palazzo Pubblico di Siena e databile al 1339, che doveva ispirare l’operato degli amministratori cittadini che si riunivano in quelle sale, distinguendo la buona dalla cattiva gestione. È un cardine  comportamentale ben noto fin dal medioevo, e ben prima.  Era l’antesignano della “vision” che si richiede, oggi, di perfezionare in chiave di sostenibilità

 

È bene sottolineare ancora come l’analisi della compatibilità aziendale con i criteri ESG serva anche a valutare la sostenibilità di un impegno finanziario. È un elemento molto importante, pressoché decisivo, soprattutto per le nostre imprese che richiedono credito, dunque che intendono crescere. Da tempo, ormai, la tendenza negli investimenti è che sempre più operatori di settore obbligano a includere la compliance con i criteri ESG negli elementi di valutazione per la concessione dei prestiti e per la definizione dei tassi.

Inoltre, importantissimo, è il cambiamento dei valori delle giovani generazioni. Questa tendenza, universale e favorita da Internet, è destinata ad aumentare e sarà di eccezionale importanza per gli investitori, i consumatori e i lavoratori del futuro, quindi anche per le nostre imprese.

Consideriamo, infine, che la trasformazione digitale è fondamentale per raggiungere la sostenibilità del sistema produttivo, in tutti e tre i sensi: E, S e G. I due grandi pilastri della trasformazione digitale sono i servizi cloud e lo scambio elettronico dei dati. Il limite è che l’intelligenza artificiale non si sostituisca a quella umana: altrimenti il finale già lo conosciamo. Lo ha descritto Stanley Kubrik, nel 1968, in 2001 Odissea nello Spazio, dove un primate de-civilizzato si interrogava su un parallelepipedo nero che, forse, conteneva in sé anche la sua intelligenza perduta.

Il tema che ci interessa, ora,  è se Confartigianato possa aiutare le imprese non solo a misurare la propria compliance ma anche ad allinearsi agli standard minimi previsti dai criteri ESG.  Deve interessarsi, la nostra organizzazione, o disinteressarsi del processo di cui parliamo e lasciare che le imprese, da sé stesse, trovino nel mercato la soluzione alle proprie necessità e la consulenza indispensabile per soddisfarle?

Più che con la retorica, a questa domanda rispondo spesso con l’immagine della estinzione dei dinosauri, avventa 60 milioni di anni fa e alla quale il pianeta e la vita hanno fatto fronte con relativa facilità. La lezione fu semplice: l’evoluzione dei tempi non attese nessuno, e chi non ebbe gli strumenti per coglierla ebbe anche la peggio.

I cambiamenti climatici vanno fermati o, perlomeno, occorre provarci, perché altrimenti il pianeta sopravviverà di certo, ma non il genere umano così come lo conosciamo oggi. E noi non possiamo non essere protagonisti di questo tentativo che ci coinvolge come persone, come imprese e come organizzazione. Noi, che ci fregiamo di guidare le imprese lungo il sentiero dell’intelligenza artigiana, dovremmo anche dimostrare nei fatti di saper loro indicare il cammino nelle sfide più difficili che esse devono affrontare.

Ma, se decidiamo di scendere in campo, lo facciamo lasciando ogni territorio a se stesso (magari con l’illusione di potercela fare da solo o con alleanze di breve respiro) o ci attrezziamo, invece, come sistema, ognuno col suo ruolo e la sua forza al servizio di tutti?

 

Perché, se guardiamo i dati della rappresentanza, possiamo proprio dire che ora sí che si comincia a intravvedere la fine del tunnel, ma si inizia anche a sospettare che, in fondo ad esso, più che uno sbocco ci sia davanti a noi un muro, contro il quale andremmo facilmente a sbattere. Dare servizi di  qualità e innovativi alle nostre aziende è per noi diventato un imperativo. In alternativa li  forniranno loro i competitori e, insieme, offriranno loro anche la rappresentanza

 

Le esperienze serie portate avanti fino a oggi su servizi complessi e ad alto contenuto di competenza ci dimostrano che “two is better than one”: due è meglio di uno da solo. Ma anche che “many together is better than two o three together”: molti, tutti insieme, funzionano meglio che piccole aggregazioni occasionali e variabili.

Molti esempi nella storia ci raccontano che gli unionisti vincono più facilmente dei confederati e che è la spinta unitaria a creare la forza d’impatto necessaria per affrontare i cambi epocali di paradigma, come quello che ci sfida oggi.

Non abbiamo che da scegliere: se tirarci su insieme le maniche, o se osservare, sconsolati, un tramonto su un passato la cui alba che seguirà non sarà mai più quella di un tempo.

Ci sproni, allora, ciò che ha scritto Amalia Finzi: “con la preparazione e il coraggio possiamo andare ovunque; il nostro mondo è il futuro”.

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