Il tessuto narrativo dell’articolo di Vincenzo Mamoli[1] sui talenti e sulla deriva tecnocratica che una tematica così complessa ha assunto, è importante perché si rivolge al senso dell’operatività relazionale nelle aziende e nei costrutti organizzativi in cui e con cui la vita sociale e quindi economica si svolge. Essa, inoltre, ha un profondo significato, se analizzata nel contesto di una prospettiva trasformatrice nei confronti della gioventù.

O meglio, della questione giovanile, così come essa si presenta sempre più oggi, in una realtà che si dipana in vuote e prevalenti forme cangianti, dall’evidenza immediata tanto diversa da quella di alcuni anni orsono. Ossia, prima dell’avvento dell’universo digitale e della creazione di landscape virtuali che hanno nel primato tecnologico la loro legittimazione.

 

I sistemi sociali, lo sappiamo, vivono e trasformano con sé stessi coloro che di essi e in essi vivono e quindi le trasformazioni organizzative sono dispensatrici di senso per le persone che, in esse e con esse, operano.

 

Così le persone si trasformano e cambiano per i significati che attribuiscono al vivere associato. Di qui le trasformazioni spirituali dei giovani che attingono da quelle forme e da quei significati.

E qui viene il nesso con il cosiddetto talento. In effetti, il talento altro non è che la competenza umana – e la competenza si apprende sia con volontà personalistica sia con “allevamento” forzato nelle agenzie sociali a ciò proposte (dette “formative” appunto); il talento, ecco, altro non è che la competenza unita alla capacità – che non si apprende, ma si trova in sé stessi attraverso la primissima socializzazione e il patrimonio culturale a cui si attinge nei primi anni di vita. Unite, queste due facoltà, dalla passione.

Sì, dalla passione, perché la passione è come la speranza di Peguy: da “virtù bambina” trasmuta la vita, perché l’attore sociale cammina con essa ed essa si incorpora come agente vitale nel suo collocarsi nel mondo.

Orbene, e qui veniamo all’acuta contestazione di Mamoli del verbo dominante: oggi si costruiscono landscape pre-formativi anziché formativi, perché tutti costruiti e presentati con una torsione tecnologico meritocratica che non predispongono alla vita, non preparano alla vita: vita, che altro non può essere che sociale e quindi in relazione e di relazione. Se non si prepara a questo, si produce dolore e caduta nell’anomia: di qui la sofferenza tanto diffusa nella gioventù.

Di qui talenti ridotti: di competenze che non sviluppano le capacità di relazione, di stare insieme e di faticare insieme: e quindi di lavorare insieme e di non rassegnarsi mai. La matematizzazione dell’esistente, la trasformazione della tecnologia da mezzo a fine, non possono creare speranza (e quindi ostacolare la perdita di quel senso che viene dall’attesa utopica, escatologica, dal lavoro e dal sacrificio), né, tanto meno, capacità relazionali. Ma senza di esse, la vita non ha senso.

 

Si può oscillare tra la sopravvivenza malinconica dell’essere e la depressione: diffusa più che mai in tempi che, invece, debbono richiamare alla passione del cambiamento.

 

Ed è a questo orizzonte che dobbiamo portare per mano – come si fa con la speranza, virtù bambina – la gioventù di oggi e di domani. Abbiamo scelto di ispirarci e di essere Spirito Artigiano esattamente per questo: con passione e con sacrificio talentuoso.

 

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Foto di cottonbro studio