(di Mauro Magatti) La serie ormai nutrita di shock globali – siamo al quarto in ventuno anni (Torri gemelle, Lehman Brothers, coronavirus, Ucraina-Russia) – dovrebbe convincerci che la stagione della globalizzazione – cioè la fase della espansione lineare verso una maggiore integrazione planetaria  –  inaugurata dalla caduta del muro di Berlino, è definitivamente tramontata. Siamo oltre la modernità liquida: è arrivato il momento di fare i conti con gli effetti entropici del modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo.

Il cambiamento è accelerato: la questione della transizione ecologica – percepita finalmente come rilevante da larga parte dell’opinione pubblica  –  si incrocia  con  una digitalizzazione  sempre più  avanzata, mentre è ormai dentro un processo di riorganizzazione l’intero quadro geopolitico planetario. Così oggi si deve far quadrare il cerchio: governare gli esiti di una pandemia che fatichiamo a  debellare e allo stesso tempo ripensare il senso dello sviluppo, nel quadro del paradigma tecnico digitale e del  delicato processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale.

Un attraversamento per nulla sicuro: aperto nella direzione, incerto nei risultati, difficile nel passaggi. Con opportunità straordinarie e rischi altrettanto ingenti.

Di fronte ai nuovi ardui problemi da risolvere, l’organizzazione sociale – ormai inestricabilmente  vincolata alla dimensione planetaria –  é chiamata a rispondere con un aumento di complessità.

 

Stiamo entrando nella “supersocietà”, un inedito intreccio tra processi già in corso da tempo, che si caratterizza per la convergenza di tre dimensioni: la stringente interdipendenza tecno-economica su scala globale; il nesso sempre più stringente tra azione umana e biosfera; la trasformazione progressiva del soggetto umano in un oggetto  della stessa  autoproduzione sociale.

 

A differenza della globalizzazione (e delle sue narrazioni), la supersocietà non origina  un processo uniforme, bensì una integrazione non lineare che, mentre spinge verso una maggiore verticalizzazione, aumenta le disuguaglianze e apre nuovi conflitti. Non un assetto univoco né rigido, ma una nuova cornice per interpretare le dinamiche del tempo che stiamo cominciando a vivere.

Superata la fase dell’espansione planetaria, ci troviamo davanti a una biforcazione. I due principali vettori del cambiamento, sostenibilità e digitalizzazione, ruotano infatti  attorno a un’ambivalenza di fondo. In che direzione ci muoviamo? Verso un mondo distopico, centralizzato e burocratizzato, verso una “stupidità di massa” dove la libertà personale è confinata al  puro spazio del divertimento? Oppure  verso una società più desiderabile, dove la libertà sarà ancora l’elemento cardine per tenere insieme sviluppo economico e democrazia?

Una domanda che diventa ancora più pressante se si allarga lo sguardo alla situazione mondiale, dove gli equilibri tra democrazia e autocrazia, che dopo l’’89  tendevano decisamente verso il primo polo, oggi sembrano subire l’attrazione fatale dei modelli che non amano la libertà.

Il destino della supersocietà è dunque apertissimo: occasione per un passo in avanti, a partire dal riconoscimento della costitutiva relazionalità della vita o per una regressione dentro una spirale di verticalizzazione, conflitto, esclusione?

Per l’Occidente, in particolare, si prospetta una vera e propria scelta di civiltà: decidere, ancora una volta, che è la libertà – e con essa la democrazia e l’iniziativa personale, il pluralismo, la sussidiarietà, la solidarietà, la giustizia sociale, la pace  – la carta vincente per affrontare le nuove sfide della fase post-pandemica. Una scelta tutt’altro che scontata e a costo zero: solo  sovrainvestendo sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela. Non in astratto, ma molto concretamente, con un massiccio e consapevole investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori.

Non è affatto detto che ce la faremo. Ma risultati arriveranno se torneremo a interrogarci su quel bene inestimabile che è la libertà.

 

Dopo gli anni dell’io e della concorrenza, per sfuggire alla rabbia e all’aggressività crescenti, viene il tempo del noi e della collaborazione. O meglio, di quello che  Alexis de Tocqueville chiamava “l’interesse bene inteso”

 

Proprio perché è una relazione, la libertà vive infatti di alleanze, legami, riconoscimenti: pubblico e privato, imprese e territorio, scuola e mondo del lavoro, innovazione e tradizione, piccolo e grande, scienza e religione, Occidente e Oriente. Nel comune sforzo di aprire varchi nel “tutto pieno” delle procedure, dei protocolli, delle regolazioni. Di contrastare le nuove forme di dominio e di odio violento. Di comprendere meglio  l’intreccio delle interdipendenze entro cui si da  la vita sul pianeta. Di combattere le fratture sociali e le disuguaglianze. Di prevenire, o almeno contenere, i potenti venti di guerra che soffiano in tante parti del mondo, e che oggi investono pericolosamente la stessa Europa. Di allestire spazi contributivi non ancora saturi e capaci di ospitare azioni capaci di  dialogo con la realtà che cambia in continuazione.

Per procedere in questa direzione occorre uno sguardo “farmacologico” nei confronti di quella leva straordinaria che è la tecnologia, necessaria per ogni realistico percorso di  transizione. Senza mai dimenticare, però, che la tecnologia è curativa e tossica allo stesso tempo. Mentre potenzia, indebolisce.

Per quanto  essenziale, la tecnologia  da sola  non ci salverà. Quanto mai necessaria, essa  non è però sufficiente per realizzare i cambiamenti che ci servono. E tantomeno per costituire un orizzonte di senso condiviso che li renda possibili.

Per scongiurare le spinte distopiche che la attraversano, la supersocietà ha dunque  bisogno di più “persona”. Accanto ai superpoteri dell’intelligenza artificiale serve potenziare il sapere concreto dell’intelligenza umana diffusa: fatta di errori e fallimenti, ma anche di comprensione dei problemi, di condivisione delle prospettive, di concretezza delle soluzioni. Di sapere concreto, locale e universale insieme. Un’intelligenza vivente, non sclerotica, dialogante, non ingabbiata dalle procedure e invece capace di orientarle e sottoporle a critica. Una intelligenza libera, concreta, creativa. E perciò in relazione con tutto ciò che sta attorno, con la tradizione da cui viene e con il futuro verso cui tende.

 

Una  intelligenza artigiana.