Con la rivoluzione tecnologica tutto il lavoro umano è in profonda trasformazione. In particolare, tante attività manuali, che coinvolgevano la corporeità, vengono progressivamente sostituite dalla robotica e dall’automazione di tanti processi lavorativi.

Per millenni, l’Homo Sapiens è stato cacciatore e raccoglitore, poi è diventato agricoltore artigiano e operaio dell’industria. Possiamo dire che per il 99% della storia dell’umanità, la dimensione corporea del lavoro sia stata la dimensione dominante perché solo ristrette élite erano dedicate ad attività intellettuali, ed ora, improvvisamente, nel tempo di un battito di ciglia, la dimensione della corporeità diventa residuale rispetto alla dimensione intellettuale.

Più correttamente possiamo osservare come stia emergendo una diversa dimensione dell’attività fisica, dell’intelligenza corporeo-cinestetica, che si sposta dalle attività faticose, pesanti, per ricollocarsi su una nuova dimensione, che possiamo definire l’infinito “mondo dei micro-gesti”. Ogni giorno, infatti, ripetuti migliaia di volte al giorno, miliardi di micro-gesti pervadono nel mondo la quotidianità del nuovo lavoro.

Sono i micro-gesti che attiviamo alla tastiera del computer o nell’uso dello smartphone, nei cruscotti di governo della linea industriale di una fabbrica manifatturiera, governo della cabina di comando di un aereo, e così, per migliaia di lavori, senza più distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

Micro-gesti che si basano su il coordinamento e la contestualità mente-corpo, da allenare ed educare continuamente. Allenamento che, per molte attività da apprendere si sta  avvalendo anche di esperienze in Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Oggi, per fare ciò che costituiva il 99% della nostra abitudine quotidiana, l’attività fisica che impegna tutta la muscolatura del corpo, bisogna programmare spazi dedicati, pagando una palestra, curando un giardino, o dedicando tempo alle attività sportive.

Un’umanità potenziata in tanti aspetti e diminuita in altri, un cambiamento antropologico in atto.

 

Una sfida per i tradizionali percorsi formativi

Siamo di fronte ad una grande sfida per la costruzione di programmi educativi e formativi, a partire dalle scuole primarie, per accogliere quella che ci si presenta come minaccia, ma anche come opportunità per un “umanità aumentata”, ma per contrastare anche i rischi di un’“umanità diminuita”.

Verrà meno l’intelligenza corporeo-cinestetica o questa evolverà in forme diverse?

Intanto possiamo osservare come nelle nuove professioni digitali, accanto a professionisti che hanno seguito percorsi formali, diplomi, lauree e master, troviamo tantissimi giovani che si sono immersi giovanissimi nel digitale, con una formazione che è avvenuta nelle modalità ibride tipiche della nostra epoca, dove la pratica laboratoriale, la community tra pari e l’abilità di accedere a tutte le risorse della rete, hanno permesso l’affermazione professionale e la creazione, ad esempio, di aziende di successo.

Un’intelligenza, quella corporeo-cinestetica, dominante per l’homo-sapiens negli oltre 60.000 anni che abbiamo vissuto da raccoglitori-cacciatori, che mantiene le sue caratteristiche, ma evolve rapidamente.
Cosa accomuna l’esperto di microchirurgia, il manutentore di macchinari complessi, il  nuovo artigiano della domotica, i nuovi artigiani del manifatturiero che uniscono tecnologia e design,  l’astronauta che deve governare sistemi digitali complessi e al tempo stesso essere in grado di riparare una falla meccanica esterna con attrezzi e le sue mani?
In comune c’è l’integrazione della dimensione manuale e della dimensione intellettuale, integrazione che sarà sempre più accentuata con l’evoluzione delle tecnologie.

Anche per i lavori più operativi, non è più sufficiente l’allenamento pratico: ci vuole una forma mentis, un’intelligenza particolare per controllare i movimenti delle dita un millimetro alla volta, e non tutti sono in grado di farlo senza un’adeguata preparazione. Analisi di laboratorio e indagini psicologiche hanno rivelato che il cervello delle persone dotate di questo tipo di intelligenza vede la realtà come un gigantesco piano tridimensionale ed elabora in maniera più rapida i segnali ricevuti dai cinque sensi, per adattare immediatamente il corpo alle coordinate spaziali in continuo cambiamento.

 Ecco allora che la tradizionale separazione tra le scuole umanistiche e le scuole tecniche non ha più senso, almeno nelle forme attuali, ma soprattutto non ha più senso considerare l’una scuola di serie A, l’altra scuola di serie B, perché è la natura stessa del nuovo lavoro che richiede una nuova visione, una nuova percezione del valore, un nuovo mindset.

E’ allora fondamentale arricchire i percorsi formativi delle scuole tecniche e professionali di percorsi orientati alle soft skills e alle componenti umanistiche, ma al tempo stesso occorre arricchire i percorsi umanistici di esperienze di manualità, della nuova manualità che integra corpo e mente. Il lavoro manuale stimola creatività, capacità di ingegno, flessibilità, resilienza, tutte capacità necessaria nella vita e in tutte le professioni, anche in quelle di maggior prestigio.

Ad esempio, alla luce di queste evoluzioni, la stessa alternanza scuola lavoro, l’attuale PTCO (Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento), può assumere un nuovo valore, collocandola nella prospettiva di acquisizione delle skill che sono prima di tutto competenze della vita, prima ancora che del lavoro, perché sperimentarsi nella relazione con gli altri, mettersi alla prova, organizzare il proprio tempo con nuove forme rispetto alla abitudini della scuola, risolvere problemi, sono competenze alla base di ogni professione.

 

Una nuova narrazione del lavoro e della formazione tecnica

Il recupero del valore e della dignità dei lavori tecnici e manuali, è allora sempre più importante e per questo bisogna saper costruire un nuovo racconto dell’apprendimento e creare un nuovo linguaggio  per dare un nuovo valore al sistema di istruzione e formazione professionale ed intervenire su tutta la filiera formativa, coinvolgendo insegnanti, genitori, istituzioni, giornalisti, perché la percezione del valore e dello status sociale di un lavoro è figlia di modelli mentali, culture, credenze che si sedimentano nel tempo.

Naturalmente, il cambiamento della percezione del valore sociale, deve essere accompagnato da una prospettiva di valorizzazione economica, accompagnata da racconti e testimonianze di lavoratori che si sono affermati professionalmente e testimonianze dei tanti artigiani, professionisti, imprenditori che sono passati per le scuole professionali e tecniche.

Ma è necessario lavorare anche sul linguaggio.

Ad esempio, in Danimarca, quella che noi definiamo “badante”, è una figura professionale formata nei loro centri di formazione professionale, gli Amu Center Randers, alla gestione economica, alle relazioni sociali, alla gestione degli anziani, una manager della casa con una percezione sociale di pari dignità con tanti altri lavori da noi considerati di maggior prestigio. In questi centri professionali, la comunicazione per promuovere i percorsi per diventare operatori sanitari ed infermieri, parla di “eroi del benessere del futuro”, di “mani esperte, cuori a posto e cervelli pieni delle ultime conoscenze”, persone che faranno la differenza nella vita delle persone. Una nuova narrazione del lavoro  che va nella direzione di una nuova dignità del lavoro, di tutto il lavoro e di tutte le forme di apprendimento.

Foto di Andrea Piacquadio